È un io narrante spaesato e spaesante quello delle pagine che Francesco Maino, Premio Calvino 2013 con il suo romanzo d’esordio Cartongesso (Einaudi), ci consegna attraverso Ratatuja delle neonate edizioni Ronzani (pp. 56, euro 12). Come molte scritture contemporanee, non è collocabile in un genere ma decide di restare in transito, ai bordi di una scrittura poetico-filosofica che allude a una pienezza e rinvia il senso senza mai svelarlo del tutto. Il colore di questo divertissement – con punte aguzze che arrivano al dissacrante – è tuttavia nel sottotitolo: parole alla prova.

Ratatuja, come spiega lo stesso autore è «accozzaglia di obbietti inservibili, disfunzionali, caotici, e randagi». Sono in effetti piccoli quadri in cui l’insistenza del corpo a corpo con le parole si avverte nitidamente. Al suo interno vi nuotano presenze imperfette con gradi diversi di esistenza: alcune sono creature segnate dall’incontro quotidiano, altre si costruiscono solo nelle ossessioni linguistiche. Se il linguaggio ha finito di rispondere alla realtà dei fatti, anche l’ordine del discorso si perverte?

Francesco Maino, accompagnato da Franco Zabagli che ha realizzato per il volumetto cinque variazioni calligrafiche a inchiostro di china, vuole allora raccontare che dal guado dell’apatia non si esce indenni, ma forse – con un po’ di audacia – divertiti fino allo stordimento. Avanzano così, tra gli altri, due piccoli esercizi che meritano attenzione, dedicati rispettivamente all’«antilingua» e alle «cose di nessuno». Il primo è un’invettiva (in forma di omaggio fluido al celebre scritto di Calvino del 1965) dove a essere dileggiata è la litania delle sigle, delle espressioni propagandistiche, delle locuzioni ripetitive.

A guardare la miseria di acronimi specialistici in cui si è spesso immersi e immerse – dall’economia finanziaria alla retorica televisiva – il significato si disperde, allo stesso modo del soggetto enunciante o spettatore. Intorno alle res nullius l’argomentazione è di altro tenore, perché quelle cose di nessuno nell’espressione di Maino sono ciò di cui non ci si vuole far carico. Sono parole che vorrebbero essere derubricate opache e invece resistono all’abbreviazione e anche alla facilità – modo quest’ultimo che sembra essere l’unico adatto per digerire ciò a cui si assiste. Eppure c’è un fondo, nelle parole, che presto o tardi fa i conti con una postura anzitutto etica. Allora «Che cosa rimane delle parole: rifugio? Sbarco? Migrante? Preghiera? Frontiera? Asilo? Che ne è dell’Europa? Che ne sarà di noi, presi uno a uno?».