Ricostruire il progetto ideato da una artista frustrata per riscattare la sua fama e al tempo stesso decostruire ciò che separa il talento dalla reputazione è il proposito che anima la voce narrante dell’ultimo romanzo di Siri Hustvedt, Il mondo sfolgorante (Einaudi, traduzione di Gioia Guerzoni, pp. 386, euro 21,00), introdotto da una sorta di avvertenza nella quale vengono fatti scendere in campo i personaggi principali, si enuncia la tecnica narrativa adottata e si forniscono le coordinate della vicenda che si andrà a raccontare. D’ora in avanti la parola sarà lasciata ai numerosi testimoni perché forniscano la loro versione dei fatti, secondo un escamotage narrativo già ampiamente collaudato, che Siri Hustvedt manovra e reinventa con invidiabile equilibrio.
Sono circa una ventina le voci che si alternano a raccontare la storia di Harriet Burden, vedova sessantenne di un grande mercante d’arte, l’assenza del quale cerca di colmare fabbricando quelle che chiama «le mie bambole marito»: fantocci, totem, feticci cui dà il nome di «metamorfi»; poi li riscalda in modo che abbracciandoli si avverta il loro calore.

Fra la fine degli anni novanta e i primi del nuovo secolo Harriet Burden aveva elaborato un progetto chiamato Masking, che implicava l’ingaggio di tre artisti, uno solo dei quali già famoso, perché si fingessero autori di quelli che erano, in realtà, lavori suoi: misurare lo scarto fra i mancati riconoscimenti collezionati nella sua carriera e l’accoglienza che la critica avrebbe riservato a opere ideate da lei ma firmate da mani maschili era lo scopo evidente del progetto; ma forse non il principale. Grande lettrice di filosofia, Harriet Burden intendeva indagare i meccanismi della percezione, mostrare come quasi sempre vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere, e svelare come i pregiudizi sulla razza, sul sesso, sulla notorietà influenzino la ricezione inconscia di una opera d’arte.
Tre personali in altrettante gallerie di New York erano state allestite e rivendicate dalle controfigure falliche che Harriet Burden aveva profumatamente pagato perché si prestassero al suo gioco: i loro nomi erano Anton Tish, Phineas Q. Eldridge e Rune. Ognuno di loro fornisce al romanzo la propria ricostruzione del lavoro svolto insieme a Harriet, la cui voce compare anch’essa, veicolata dagli appunti dei suoi taccuini che la figlia consegna alla voce narrante, una figura di critico piuttosto indistinta, tale I.V. Hess, cui si deve il merito di avere raccolto recensioni delle mostre, interviste con galleristi e critici, dichiarazioni scritte di amici, convocando tutti coloro che erano stati al corrente del progetto dell’artista, ormai morta da tempo.

Per ognuno dei testimoni interpellati in questo romanzo di voci Siri Hustvedt trova il registro ottimale, intonato nell’evocare «gli avanzi freddi della teoria letteraria francese», così come nel riprodurre la consapevolezza critica derivata dalle indagini filosofiche sullo statuto dell’arte. Mentre si addentra con leggerezza e compassata ironia nel mondo di galleristi e collezionisti dove un giorno sei un idolo e il giorno dopo diventi invisibile, la scrittrice americana esibisce come protesi irrinunciabili le sue passioni dilettantesche per letture che vanno dalle neuroscienze alla filosofia dell’arte. Ma ciò che le riesce meglio è rendere credibili le voci di soggettività tra loro diversissime: quella del nuovo compagno di Harriet, un brav’uomo indifferente al mondo dell’arte e ai suoi significati incarnati, unicamente preoccupato per la salute mentale della donna che ama; quella dei due figli, il giovane e intransigente scrittore Ethan e sua sorella Masie, catalogatrice e documentarista del lavoro di Harriet; la logica del simpatico spostato che si fa chiamare Barometro, uno dei tanti randagi accolti nella enorme casa dove Harriet si era trasferita dopo la morte del marito; la irritante loquacità di Sweet Autumn Pinkery, ragazza new age soprannominta dalla madre con il nome di una clematide; l’understatement rigoroso della critica che vorrebbe offrire a Harriet la possibilità di svelarsi e il lessico idolatrico del biografo impegnato nel ritratto dell’ultimo artista di grido; e poi voci e scritti di protagonisti del mondo dell’arte, e fra questi l’irrintracciabile Richard Brickman, poi rivelatosi maschera testuale di Harriet, il personaggio del suo progetto artistico cui aveva delegato il compito di spiegarne il senso.

Come vediamo? Questa la domanda che percorre il romanzo e per rispondere alla quale vengono riassunte conclusioni mutuate dalle ricerche sulla percezione nelle neuroscienze, dalla filosofia analitica angloamericana, da una corrente eterodossa della fenomenologia europea, dalla teorie poststrutturaliste, che forniscono a Harriet convinzioni discutibili, ossia che la percezione delle cose del mondo viene creata socialmente e poi depositata nella tradizione culturale, così che noi vediamo secondo le nostre aspettative, una idea che darebbe ragione ai costruzionisti.

Harriet Burden vorrebbe fabbricare un’opera che incarni l’empatia, cita insistentemente Husserl e William James, ma naturalmente anche Freud, e di passaggio una certa Siri Hustvedt, la cui posizione viene definita «un bersaglio mobile». Prima di trovare l’espediente narrativo per riderci su, tra le pagine dei testi saggistici raccolti in Vivere, pensare, guardare (che oggi si direbbero appunti preparatori del suo ultimo romanzo), la scrittrice americana si era definita «una vagabonda intellettuale senza affiliazioni».
Dalle diverse voci interpellate, pareri discordanti convergono a illuminare i protagonisti del progetto di Harriet, e lei stessa viene eletta da un critico a «modello di sanità metale in un mondo follemente prevenuto», e da un altro bollata in quanto «eccentrica, paranoica, belligerante, isterica e persino violenta»; ma la voce narrante pensa che si sbaglino entrambi e che Harriet non sia altro se non «una persona sensibile, tormentata arrabbiata e come molti di noi soggetta a momenti di cecità nevrotica».

La prima maschera ingaggiata per ordire la trama del suo riscatto era stata quella del giovane artista Anton Tish, «così ignorante da spezzare il cuore»: per lui Harriet crea The History of Western Art, una installazione che ruota intorno a una grande Venere, su una coscia della quale sono incise meditazioni sulle bambole tratte dalla Foresta della notte di Djuna Barnes. Altri indizi smentirebbero la paternità dell’opera, e la voce narrante li enumera alla gallerista irritata che ospitò a suo tempo l’installazione; ma a chi importano i dettagli? Fatto sta che Anton Tish, non prima di avere raccolto le lusinghe del successo incontrato dall’opera che aveva firmato per conto di Harriet Burden, scompare dalla scena artistica sulla quale si era rivelato poco più di un burattino. Siri Hustvedt abilmente gli concede, per bocca del narratore cui affida il suo romanzo, una intervista in cui parla della performance che gli ha dato la fama: brevissima, e non a caso, perché Tish non ha nulla da dire.

La successiva controfigura scelta da Harriet Burden corrisponde al nome di Phineas Q. Eldridge, dolente performer mulatto e omossessuale approdato nella grande casa della sua futura committente, dove si presta a dirigere l’andirivieni degli sbandati di passaggio. È lui il firmatario delle Suffocation Rooms, sette stanze quasi identiche popolate di «metamorfi», la cui temperatura si fa via via più calda e i mobili più grandi, così che alla fine le dimensioni dell’arredamento riducono il visitatore a percepirsi non più grande di un bambino. Terminata ben prima dell’11 settembre 2001, l’opera venne montata la primavera successiva all’attacco, ciò che indusse critici tanto indifferenti alla verità dei fatti quanto sedotti dalle loro congetture a leggervi simbologie patentemente inesistenti. Nell’intervista che il narratore gli richiede, Phineas Q. Eldridge cita Susan Sontag: «L’interpetazione è pericolosa».

Arrivato al suo terzo passaggio, anche il gioco di Harriet Burden si traduce in un eccesso di azzardo: l’artista al quale ora si rivolge, contrariamente ai primi due non ha bisogno di lei, né dei suoi soldi. Si fa chiamare Rune, il mondo dell’arte rispetta in lui il cantastorie che continuamente si reinventa, la creatura dei media, l’avatar sceso tra le pareti delle gallerie newyorkesi e proprietario di una casa che fa pensare a Versailles trasferita in riva all’Hudson. Alle spalle ha una mostra titolata The banality of glamour, dove usa teconologie di murphing facciale per alterare gradualmente i suoi tratti in una sequenza video girata nell’arco della stessa giornata. Nella intervista che lo riguarda dice che i collezionisti hanno apprezzato il titolo della sua performance per il riferimento a Hannah Arendt, benché non abbiano letto un solo suo libro; come lui, del resto.

Pare che l’11 settembre lo abbia cambiato, si dice che sia alla ricerca di una nuova estetica, di un modo per ibridare il suo lavoro con residui del passato: chi lo segue sa che coltiva nostalgie per l’avanguardia, per l’arte prima che Wahrol la piegasse a ancella del consumismo. È a questo punto della sua vita che compare Harriet Burden, l’artista alla ricerca della sua terza maschera: «sarà il mio Joahnnes il seduttore», dice citando Kierkegaard. Ma Rune è perplesso, la ascolta mentre lei gli spiega con una passione che le incrina la voce come l’arte «viva solo nella percezione». «Sei l’ultimo dei tre e sei il culmine», gli dice. E lui: «Vuoi indossarmi per una mostra».

La battuta calzante già tradisce quel cinismo di cui Rune si farà forte per portare Harriet alla rovina. Per lei firma una installazione titolata Beneath, dove lo spettatore è costretto a camminare in un labirinto mentre scorrono le riprese di macchine devastate, scarpe di bambini abbandonate nella polvere, strane maschere, e Rune che beve una tazzina di caffè, inglobato nel video come una presenza indifferente, allo scopo di sollecitare lo spettatore con qualcosa di più efficace delle solite immagini prese dagli attentati alle Torri.
«Beneath colpì il mondo dell’arte come un tornado», dichiara Oswald Case, il futuro biografo di Rune che non è disposto a strappare un millimetro della sua gloria alle rivendicazioni di Harriet, la cui mano viene negata e il cui ruolo è relegato a quello di musa ispiratrice. L’ultima delle personae che aveva ingaggiato le si è dunque rivoltata contro: d’ora in avanti quel che più interessa del romanzo riguarda il conflitto di interessi tra l’artista misconosciuta e il bluff della sua controfigura, un talentuoso ragazzotto di ventiquattro anni che filma ogni sua azione, fino all’ultimo lavoro, Houdini Smash, in cui muore davanti alla cinepresa dopo avere ingoiato una manciata di pillole.

C’è chi dice che Rune non intendesse farla finita, e c’è chi intepreta la sua ultima opera come l’intento di filmare la sua resurrezione: certo è che il giovane performer riporta all’evidenza la questione di cosa distingua l’arte dalla propria filosofia. Non a caso un articolo scritto dopo la sua morte cita Arthur Danto, perché quel che ora è in gioco riguarda l’autoriflessività dell’arte a dispetto della rozzezza dell’interprete, lo spregiudicato ragazzo che se n’è andato lasciando sulla bocca di tutti l’interrogativo di cosa distingua la sua morte dalla performance in cui muore davvero.