Ci sono film che più di altri ti fanno interrogare sul senso stesso della rappresentazione, o forse di come la percezione possa suscitare sentimenti così reali che il cinema stesso fatica a definire. Anne Charlotte Robertson, allieva di Saul Levine e vicino ai lavori di Ed Pincus, aveva deciso di girare per 5 anni (che poi diventeranno 15) con la sua piccola Super-8 tutti i momenti della propria vita, in un modo che probabilmente non si è mai visto prima e che si pone in contraddizione totale ma in paradossale vicinanza con l’uso attuale dell’auto-rappresentazione. Dal 1981 al ’97 condensa in 38 ore esperienze, sogni, paure, desideri e soprattutto una continua inadeguatezza nel vivere.
Siamo a Framingham, nel Massachusetts, quasi un archetipo di provincia americana in cui viene rappresentato un mondo intero. Protagoniste dei rulli sono le mille sfaccettature della personalità di Anne le sue lotte continue con la depressione e l’ansia che la divorano. Il quotidiano prende il sopravvento tra la fascinazione verso Tom Baker, la battaglia contro la bilancia, l’affetto per i gatti e la morte del nipotino; poi ci sono le sue dolorose riflessioni sulla malattia e sugli effetti collaterali che subisce per via dei farmaci.

Un costante gioco a conoscere e a conoscersi, con la Robertson stessa che a fasi alterne torna sulle immagini per commentarle, narrando su tape i rulli muti, per vedersi allo specchio a distanza di tempo e cercare di capire dove stia andando. Ma tutto ciò non è solo un diario stratificato, perché in mezzo – tra l’obbiettivo della macchina da presa e quello che noi guardiamo – c’è una persona, il suo crescere, il bisogno istintivo del filmarsi in maniera terapeutica e conviviale. Emerge una solitudine e una dolcezza assoluta dai fotogrammi della Robertson.

I suoi film non sono completamente negativi, per l’umorismo stimolante che dona una luce rara alle profondità dei momenti più bui. Anne coraggiosamente ha esposto i suoi dialoghi interiori più intimi e ossessivi, e il filmarsi a tratti l’ha addirittura salvata dal personale oblio del non riconoscersi adeguata al mondo. Non esistono i tagli perché quella materia appartiene, appunto, al flusso della vita e non fa altro che ricordarla così com’è trascorsa. Guardare oggi questi frammenti e pensare a quale deriva abbia preso l’immagine, soprattutto quella dell’autorappresentazione, e la continua messa in mostra ed in bacheca di noi stessi, è agghiacciante. Lo spazio umano (e politico) del guardarsi per cercare la curiosità del conoscersi pare non esserci più.

E forse proprio qui sta il motivo fondamentale, di una delle opere più particolari ed intime riscoperte negli ultimi anni. La Robertson non volle mai far vedere a nessuno questi diari, perché in fondo avevano un presunto destinatario, un principe azzurro. A loro modo dovevano essere un pegno d’amore, chi avrebbe voluto sposarla in quelle trentotto ore l’avrebbe conosciuta fin da giovanissima, avrebbe apprezzato i pregi ed i suoi difetti, e l’avrebbe amata per quello che in fondo era,. Anne se n’è andata tre anni fa per colpa di un cancro, e probabilmente quell’uomo ideale non lo ha mai incontrato. Però in eredità ci ha lasciato quest’opera straordinaria.