Non c’è dubbio che l’avvento della fotografia ha cambiato la percezione della realtà e il conseguente adeguamento delle pratiche artistiche classiche al nuovo mezzo. Con un scarto temporale in avanti, se si dovesse evocare la letteratura, si potrebbe applicare lo stesso principio di trasformazione della stessa all’avvento del cinema e successivamente del web.

Detto questo: un’indagine accurata, che però intende soffermarsi su ciò che con facile definizione si potrebbe chiamare «l’ideologia» del fotografare, può rivelarsi ancor oggi sorprendente per novità tecniche e di linguaggio; soprattutto con la messa in opera di uno story-telling capace di trascinare con sé raffinate riflessioni filosofiche come spicce banalizzazioni sulle modalità di scatto e riproduzione, e diventare così, in relazione con il mondo, soggetto e oggetto di narrazione.

D’altronde sono state messe a referto in più sedi le fertili connessioni che la fotografia instaurò con il modo di scrivere. Di certo, l’ampio e pionieristico uso del mezzo per esempio fatto, in Italia, da scrittori come Verga, Capuana e De Roberto contribuì non poco a delineare un movimento altamente fecondo e tellurico come il Verismo, le cui imprevedibili derive influenzarono sia il melodramma primo novecentesco sia il neorealismo cinematografico. Ma, gli esempi potrebbero continuare poggiandosi anche a teorie, uscite dal cilindro della storia, come quelle di Walter Benjamin o più recenti come quelle di Roland Barthes o di Susan Sontag.

Chi sembra applicare al suo modo di fotografare tali procedimenti è Francesco Maria Colombo, audace ed eclettico spirito intellettuale del nostro tempo al servizio della musica come critico, direttore d’orchestra, nonché autore e conduttore televisivo di «Papillons» su Sky Classica. Ed ora fotografo – «malattia» già detto di scrittori ma anche di molti pittori e musicisti, per abbracciare un ampio arco temporale da Mikalojus Konstantinas Ciurlionis a Bill Wyman – e con già all’attivo reportage su periodici internazionali, libri e mostre: «Verdi Architetto» che impreziosì da prospettive inedite il bicentenario del compositore e «Sguardi privati.

Sessanta ritratti italiani», selezionati tra le punte della cultura nazionale, aperta fino al 12 aprile alla Giudecca di Venezia, Casa dei Tre Oci (a cura di Denis Curti, catalogo Skira).

Per una di quelle fortuite coincidenze della vita, il fotografare da passione si è trasformata in una vera e propria professione, non dimenticando assolutamente la fascinazione iniziale: «Tutto è cominciato per caso – risponde Colombo nelle more di una conversazione caduta tra i preparativi dell’inaugurazione della mostra (si è aperta il 6 febbraio) – con la foto di Werner Henze – peraltro in mostra – postata sul mio profilo di Facebook. Era morto. Mi pareva importante, anche per il mio ricordo personale, per come l’avevo trovato a casa sua, a Marino, mentre suonava il pianoforte. Era il 2012, stava componendo La morte di Isolde per Christian Thielemann e l’Orchestra di Dresda, partitura rimasta incompiuta. L’ho colto in momento cruciale per lui, sul limitare della vita. Da quel post è nato il rapporto con un’agenzia di Londra che mi mette sotto contratto e comincia a chiedermi altre fotografie».

Dunque, scrittura, musica e ora fotografia …

… tutte trattate con rispetto. La fotografia, in questo caso, affianca la musica come l’affiancava la scrittura. Sono altri terreni di indagine …

E c’è anche la televisione, nella tua esplorazione o come dici «indagine» del linguaggio artistico contemporaneo, indipendentemente dal mezzo usato.

Sì, lo stavo dimenticando. Comunque, la fotografia mi ha da sempre affascinato. Ho riflettuto molto anche sulle teorie che cercano di spiegarla. L’assidua lettura de La camera chiara di Barthes mi suscita ancora molte riflessioni. E intorno ad esse ci sto lavorando. C’è un mio interesse culturale sia sulla fotografia sia su chi fotografa. Ad ogni modo la fotografia è una pratica diversa dalla musica, ma con cui condivide la fisicità.

Vuoi dire che fotografo e direttore d’orchestra possono somigliarsi all’atto pratico-creativo?

In un certo senso sì. Lo scattare foto del corpo e con il corpo mette in funzione meccanismi di seduzione non verbale. Ed anche il gesto e il sudore del direttore d’orchestra comunicano uno stato fisico di tensione relazionale con il pubblico e con i musicisti. Naturalmente questi meccanismi comunicazionali agiscono su più livelli, anche intellettuali ed erotici.

«Sguardi privati», con i personaggi che hai ritratto, sembra mappare una geografia intellettuale e artistica nazionale. Con scelte devo dire anche inusuali, proprio nella scelta di chi ritrarre, ma che consentono anche in un momento di crisi, anche culturale, di vedere quanto di buono e non solo da buttare ci sia nell’arte, nello spettacolo, nel teatro e nella musica italiana. Immagino che tu abbia operato una selezione nell’impaginare i ritratti in mostra.

All’inizio avevo circa 110-120 ritratti. Un portfolio sostanzioso. Aggiungo che cominciai a fare ritratti pochi anni fa, per un progetto di mostra in Russia. Ritraevo personaggi del cinema, poi ho allargato il raggio d’azione alla cultura e allo spettacolo: teatro, letteratura e naturalmente alla musica. Molto merito della selezione delle foto in mostra ce l’ha Denis Curti. La sua curatela e il saggio in catalogo sono stati illuminanti. Mi hanno dato la chiave di lettura giusta della mostra. L’ha scritta Curti, ma è come se l’avessi scritta io, talmente è entrato e soprattutto è riuscito a centrare il mio modo di lavorare e il rapporto estetico ed emotivo che instauro con il soggetto ritratto. Mi piace poi l’idea di mappa. Sono ritratti centenari e quasi centenari come Gillo Dorfles e Valentina Cortese, autentici mostri sacri della critica e del palcoscenico e poco meno che trentenni come il pianista e compositore Orazio Sciortino e Federica Rosellini, talentuosissima e fenomenale attrice.

Colpisce l’ambientazione delle foto, non sei in uno studio né vi sono artifici. Tutto appare molto naturale. Noto un rispetto della profondità di campo che potrebbe far supporre un tuo passaggio al video.

No, no ci mancherebbe. Amo molto le foto di Nadar. I miei ritratti prendono spunto da lì. Gli ambienti sono sempre interni di case, la mia o quella di chi viene fotografato; c’è sì un’impostazione classica. Ma tendo anche a porre interrogativi tra ambiente, scena e soggetto. Ad istaurare relazioni tra io che fotografo e il soggetto che sto e verrà fotografato.

A proposito quale macchina fotografica adoperi?

Sono Nikon dipendente. Uso la D3X e la D800E.

Varrebbe la pena citare tutti i nomi dei personaggi ritratti. Qualche nome è sgattaiolato via. Certamente con questo tuo modo e metodo di lavoro avrai stretto amicizie. Con chi ti sei trovato più a tuo agio? Ne avrai di storie e di aneddoti da raccontare.

Non nego che sono accadute anche situazioni molto simpatiche e divertenti. Con Valerio Mastrandrea si è creata una giocosa complicità. Mi indicava con il suo romanesco che la sua espressione me la dovevo tenere così com’era. Mi dovevo accontentare. Ma è con Francesco Rosi che ho avvertito di stabilire una vera connessione emotiva. Andai a trovarlo a casa. Sapevo della sua fama di persona un po’ ruvida ed invece dopo quattro ore ero ancora con lui, che parlava con me uno sconosciuto della sua vita, di episodi belli e brutti. Aveva compreso che il mio approccio era sincero nei suoi confronti. Prima di scattare gli chiesi «posso?» e clic riprese proprio il momento in cui aveva una lacrima appesa all’occhio. Credo che tutto questo sia evidente nel suo ritratto.