L’ultima volta che l’ho visto era circa un anno fa: ero andata a casa sua assieme ad Agostino Ferrente che voleva vedesse il suo film su Napoli – Le cose belle. Agostino, almeno due generazioni più giovane, ci teneva molto e ha approfittato della mia vecchia amicizia con il «maestro» per incontrarlo. Un film su Napoli non poteva non esser visto e giudicato da un napoletano così napoletano come Franco Rosi. La visione fu un disastro tecnico: perché il grandissimo regista non possedeva uno schermo degno di questo nome, né un televisore di proporzioni umane. Dovemmo infilare il dvd in un apparecchietto minuscolo e che per di più offriva solo un suono intermittente, inaudibile.
Rosi non si era conciliato con la tecnologia, già vedere un film su una tv gli era inconcepibile. Non perché fosse un uomo dell’altro secolo, per carità: era tutt’ora molto molto contemporaneo, uno sguardo lucidissimo sulla nostra epoca, e sui guai della sua sinistra. La stessa intelligenza della realtà che aveva avuto da giovanissimo, parte di quel gruppo particolarissimo di intellettuali napoletani socialisti di sinistra che hanno contribuito molto a raccontare il tempo della mia generazione e di parecchie successive.

In mezzo a tanta discussione sul rapporto fra storia e fiction, basterebbero i film di Franco Rosi a far capire quanto e come l’artista – se lo è davvero – riesce a dire, più di chi riferisce di documenti e archivi, della realtà, svelandone, attraverso l’invenzione narrativa, anche quanto non è altrimenti visibile. Un elemento essenziale della politica di cui proviamo oggi una struggente nostalgia. I suoi film sono stati un contributo primario insostituibile alle nostre battaglie del dopoguerra. Franco era passionale, nel senso che ci teneva a che i suoi film suscitassero passioni, alimentassero il fare politico. Ricordo quanto avvenne parecchi anni prima dell’infortunio tecnologico col film di Ferrente in Cina, un altro assurdo incidente. Eravamo a Pechino con una delegazione di Cinecittà – la prima – presidente all’epoca Gillo Pontecovo ( io ero lì perché allora ero presidente di Italia Cinema, l’agenzia di promozione dei film italiani). Si doveva proiettare La Tregua e naturalmente non c’era sottotitolazione perché allora né lì né, del resto, in tutta l’Europa dell’est, era abituale. Si procedeva con l’«overvoice»: la voce del traduttore, collocato nella sala, che si sovrapponeva a quella dei protagonisti del film. Franco era sospettoso circa il risultato e per questo assai nervoso. Poco prima di cominciare si informò dal traduttore se aveva capito bene di cosa trattava il film e quello rispose sicuro: «Sì, certo, è un film sulla vita di John Turturro (se ricordate era lui che interpretava Primo Levi).

Alla risposta Franco stava per riprendersi la pellicola e andarsene infuriato. Accettò di restare quando gli fu spiegato che Primo Levi non era mai stato tradotto in Cina, era uno sconosciuto. Ma contravvenendo a tutte le regole della sicurezza in vigore in Cina, dove nessuno avrebbe potuto rivolgersi ad un pubblico grandissimo qual era quello che affollava l’anfiteatro ove il film doveva essere proiettato, saltò sul palco e improvvisò un appassionato riassunto de La tregua. Ricordo bene le sue ultime parole, in cui descriveva la prima scena del film: «ecco, adesso vedrete una pattuglia dell’Armata rossa a cavallo che arriva in vista del campo di sterminio dove sono rinchiusi gli ebrei superstiti delle camere a gas». «Ecco – aveva aggiunto – spegnete le luci»; e si aspettava apparisse sullo schermo la bellissima, emozionante inquadratura con cui si apre quel film. E invece, a interrompere brutalmente l’emozione che era riuscito a suscitare nel pubblico con le sue parole, e che certo l’«overvoice»non avrebbe potuto animare, il proiezionista cinese per un errore mandò un documentario sui mondiali di calcio che dovevano tenersi in Italia. Durò 40 minuti. Ci nascondemmo tutti per una giornata intera, non avevamo il coraggio di affrontare il suo furore sacrosanto.

Era il 2000, 15 anni fa, e la nuova Cina stava spiccando il volo, già nel mercato mondiale ma ancora terzo mondo. Alla riunione con il giovanissimo direttore della produzione cinematografica cinese che il rappresentante del Ministero dei beni culturali, membro della nostra delegazione, cercava di convincere ad intraprendere il negoziato per un accordo di coproduzione con l’Italia, per cui era necessario un voto parlamentare e un accordo fra governi come per i Trattati internazionali, il giovanotto ci guardò e disse: «Ma ce li avete i soldi? Perché con gli americani di tutte queste procedure non c’è bisogno, ma loro ci hanno i soldi». Non dimenticherò mai la faccia di Gillo, di Angelo Guglielmi allora direttore del Luce, di tutti i nostri, ma soprattutto quella di Franco Rosi.

Scusate se mi perdo in questi anneddoti, ma sono proprio queste vicende vissute assieme che tornano alla mente quando qualcuno scompare. Almeno in un primo momento, perché subito dopo la ferita penetra nel profondo e si avverte il vuoto che la morte lascia quando colpisce una persona come Franco Rosi che per via del suo cinema ha così tanto segnato la nostra cultura e coscienza. Vorrei ricordare però anche anni più spensierati, le serate con Franco e Giancarla nell’attico di via della Croce, o i bagni sulla spiaggia avanti alla loro casa al Villaggio dei Pescatori a Fregene, il luogo mitico dove si radunava allora il nostro miglior cinema: Ettore Scola, Citto Maselli, Franco Solinas, Felice Laudadio… Erano gli anni ’60, un grande tempo e perciò anche un grande cinema.