Mai, nella sua storia, la Francia ha subito, in una sola sera, attentati così devastanti: oltre 125 morti e un centinaio di feriti gravi; mai si erano verificati attentati-suicidi.

Contrariamente all’attaco contro il settimanale Charlie-Hebdo e contro il supermercato kosher a gennaio del 2015, sono stati presi di mira luoghi pubblici, scelti non per il loro carattere simbolico, ma perché erano, di venerdì sera, molto frequentati e perché si poteva provocare il maggior numero di vittime.

Che l’emozione domini in tali circostanze, è normale, ma questo non deve impedirci di riflettere e di analizzare quel che è successo con la necessaria distanza.

Il clima politico interno rischia tuttavia di impedire questa riflessione. Diversamente dal momento degli attacchi contro Charlie-Hebdo, l’appello all’unità nazionale non funziona. Una escalation si è innescata nel campo della destra, segnatamente in vista delle regionali di dicembre: che rischiano di vedere il Front National di Marine Le Pen impadronirsi, per la prima volta, della presidenza di alcune di queste.

Altri dirigenti «scivolano» a loro volta nell’islamofobia. Philippe de Villiers, presidente del Mouvement pour la France, non ha esitato ad attribuire questo «immenso dramma di Parigi», al «lassismo e alla “moscheizzazione” della Francia».

Quanto al numero 3 del partito Les Républicains (il partito di Nicolas Sarkozy), Laurent Wauquiez, ha chiesto un Patriot Act alla francese e la reclusione di «4.000 persone schedate per terrorismo» nei «centri d’internamento».

L’aggravarsi dell’islamofobia, la messa in questione delle libertà fondamentali costituirebbero però una vittoria degli autori degli attentati.

Un’altra dimensione degli avvenimenti riguarda la politica estera di Parigi su cui sarebbe necessario avere un dibattito franco e sereno. Se la Francia è particolarmente presa di mira, è perché, insieme agli Stati uniti, è la più impegnata militarmente all’estero, dal Mali alla Siria, dal Centrafrica all’Iraq.

Ora, il bilancio della «guerra al terrorismo» scatenata dopo l’11 settembre e rilanciata dopo la conquista di Mosul da parte dello Stato islamico (Isis), nell’estate del 2014, è disastroso.
Il suo fallimento è evidente: mai sono stati commessi tanti attentati, spesso negli stessi paesi musulmani – negli ultimi mesi soltanto, l’attentato di Ankara, l’attacco contro l’aereo russo sopra il Sinai o gli attacchi suicidi a Beirut in una periferia popolare, per non parlare dei numerosi attentati in Iraq.

E mai così tante persone, soprattutto giovani, si sono arruolate nei gruppi estremisti, che si tratti di al-Qaeda o dell’Isis, convinte di participare alla resistenza contro un’aggressione internazionale diretta al mondo musulmano.

Non è tempo di interrogarsi sull’uso sistematico della guerra? Se è necessario sradicare l’Isis, al di là dei bombardamenti spesso inefficaci, non si dovrebbe privilegiare l’azione politica per ricostruire un Medioriente trascinato in una spirale di caos, in particolare dopo l’intervento nordamericano in Iraq del 2003?

Non sarebbe tempo di promuovere un’azione coordinata delle potenze regionali che, ognuna alla loro maniera, hanno aggravato il conflitto siriano? La riunione di Vienna del 14 novembre che ha visto la partecipazione di tutte le potenze segna, forse, un passo nella giusta direzione.

E’ più che mai arrivato il tempo di spingere realmente per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che passa per la fine dell’occupazione israeliana.

Rifiuto dei tentativi di dividere la popolazione francese – tra musulmani e non musulmani, tra immigrati e francesi -, priorità alla politica e alla diplomazia sulle bombe in politica estera, questa dovrebbe essere la strategia della Francia.

Giornalista, animatore della rivista online OrientXXI.info