C’era un campo nel quale François Hollande e la sinistra di governo in Francia non avevano ancora abdicato: quello delle libertà, dei principi. Anche se questi ultimi, pur continuamente ribaditi, entravano spesso in contraddizione con le pratiche dello Stato e delle forze di polizia.

La sinistra si richiamava alle libertà, ai diritti umani, all’eredità del 1789. E proclamava con forza, in quest’ambito, la sua opposizione non solo all’estrema destra e al Front national, ma anche alla destra pronta a chiedere sempre più sicurezza in nome della lotta contro la delinquenza o contro il terrorismo.

Dalla vittoria elettorale nel maggio 2012, François Hollande e il Partito socialista avevano abbandonato via via tutte le loro promesse. Avevano rinunciato a qualunque forma di resistenza al liberismo economico, applicando le ricette di austerità in precedenza condannate, e aggravando le disuguaglianze.

Si erano piegati al diktat di Bruxelles, che in campagna elettorale avevano stigmatizzato. E, tradimento finale, avevano lasciato solo il governo greco, frutto di una grande volontà popolare, di fronte a una Commissione europea e a un governo tedesco chiusi nelle proprie certezze.

La politica estera di Hollande è stata essenzialmente caratterizzata dall’uso della forza militare come mezzo di risoluzione dei conflitti. Mai in precedenza, dalla seconda guerra mondiale, un governo francese era stato impegnato in tanti teatri di operazione.

Dal Mali all’Iraq, dalla Repubblica centrafricana alla Siria, la Francia, malgrado i mezzi limitati, malgrado i proclami di austerità, trova le risorse necessarie a intervenire in armi. Comportandosi sempre da fedele alleata degli Stati uniti.

E quando Parigi ha criticato Washington, è stato per rimproverare al presidente Barack Obama la sua debolezza di fronte a Tehran sul dossier nucleare.
Di fronte all’ondata di rifugiati provenienti dalla Siria e dal Medioriente, ingigantitasi nel corso del 2015, la Francia socialista ha dato prova di pavidità, rifiutando di onorare la tradizione di accoglienza e di rispettare il diritto internazionale che obbliga i paesi a proteggere le persone minacciate.

E’ tristemente ironico, del resto, che la grande maggioranza dei rifugiati preferisca la Germania, il Regno unito e l’Europa del Nord: è lontano il tempo in cui la Francia era la seconda patria dei rifugiati armeni, degli ebrei centroeuropei, dei polacchi e degli spagnoli.

E gli attentati del 13 novembre 2015, dopo quelli contro Charlie Hebdo e il supermercato kosher nel mese di gennaio, hanno portato il governo a rinnegare l’ultimo baluardo, quello della difesa dei diritti umani, dei grandi principi di una democrazia liberale.
Mentre la Corte di cassazione, incoraggiata dalle autorità, criminalizzava la campagna di boicottaggio dei prodotti israeliani nota come Bds (boicottaggio, disinvestimento, sanzioni) – facendo della

Francia l’unico paese democratico nel quale si applichi una simile misura -, il governo decideva di proclamare lo stato di emergenza, di prorogarlo per tre mesi e infine di progettarne l’ingresso nella Costituzione.

Questa legge del 1955, adottata agli inizi di quella che la Francia rifiutava di chiamare «guerra di Algeria», era stata prevista per liquidare l’insurrezione di un popolo.
Si sa che cosa accadde. Ma è la prima volta che la legge è estesa a tutto il territorio nazionale (nel 1955, copriva solo i «tre dipartimenti francesi» di Algeria). Se passerà la riforma della Costituzione (che in gennaio sarà presentata al Congresso, Parlamento e Senato in seduta comune, e dovrà ottenere la maggioranza dei tre quinti dei votanti – un risultato impossibile senza il sostegno della destra), «l’eccezione diventerà la regola», come ha titolato il quotidiano Le Monde, e alle forze di polizia e all’amministrazione saranno accordati poteri esorbitanti in materia di arresti, detenzioni domiciliari, perquisizioni, intercettazioni telefoniche di decine di migliaia di cittadini.

Sono state già decise 200 assegnazioni agli arresti domiciliari (anche di militanti verdi), ed effettuate oltre tremila perquisizioni – in gran parte senza alcun risultato rispetto all’obiettivo dichiarato, la «lotta contro il terrorismo».

I musulmani sono l’obiettivo privilegiato di questi attacchi e il potere sta incoraggiando un’islamofobia della quale il Front national di Marine Le Pen non è affatto l’unico portatore.
Da tempo la destra e settori importanti della sinistra e anche dell’estrema destra, con vari pretesti – lotta all’«oscurantismo», laicità, eguaglianza fra i generi – si sono trasformati in cantori di questa nuova forma di razzismo che prende di mira prioritariamente gli immigrati e settori delle classi popolari.

Ma è con una misura ben più che simbolica che François Hollande ha chiuso il cerchio delle sue abiure. E’ la misura che intende privare della cittadinanza i cittadini nati francesi ma che dispongono anche di un’altra nazionalità.

Così si trasformerebbero di fatto in cittadini di serie B i figli di immigrati, nati francesi sul territorio nazionale, ma che hanno ancora la cittadinanza dei loro genitori. In passato aveva sostenuto questa misura solo il Front national, raggiunto nel 2010 da Nicolas Sarkozy.

Si accentuerà senza dubbio la frattura fra le popolazioni «musulmane» e i francesi «per sangue», e si finirà per legittimare il discorso dell’Organizzazione dello Stato islamico (il Daesh) che incita i musulmani a rifiutare una società che li disprezza.

Come dichiarava Henri Leclerc, avvocato, presidente d’onore della Lega dei diritti umani (Ldh) e figura emblematica della sinistra giudiziaria (Médiapart, 24 dicembre 2015): «Fatte le debite proporzioni, ricordiamoci che nel 1933 Hitler si era avvalso degli strumenti legislativi creati dai socialdemocratici.
Se un giorno avremo un governo di estrema destra, questo potrebbe trovare strumenti per attuare politiche ultra-securitarie e spaventosamente repressive».

*Alain Gresh è ex caporedattore di Le Monde diplomatique, direttore del giornale online Orient XXI

(Traduzione di Marinella Correggia)