Durante un festival jazz che si presenta come Laboratorio Z e la Z sta per Zappa, Frank Zappa, che cosa devono fare i musicisti invitati? Cercare di mettere più Zappa possibile nei loro concerti o infischiarsene del tema, che facilmente diventa un compito, e suonare la propria musica il più liberamente possibile? Il problema si è posto alla trentunesima edizione della rassegna Ai confini tra Sardegna e jazz di Sant’Anna Arresi. La seconda opzione ha ottenuto la maggioranza ma si può dire che un pensierino a Zappa l’hanno fatto quasi tutti lo stesso.
Con l’avvertenza che non abbiamo potuto seguire le ultime quattro serate (su dieci) del festival ci è parso che in rilievo siano state le esibizioni di Serenus Zeitblom Oktett, dello Zappa Speach Project dell’ensemble diretto da Andrea Massaria, dei Rubatong, di Alexander von Schlippenbach con Dj Illvibe. Schlippenbach, pianista tra i grandissimi della free music europea già a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, non si è certo curato di apparire zappiano. Con lui lo spirito della dodecafonia non è affatto morto. Un webernismo tinto di cultura free, poche note, ma un senso nuovo della comunicazione, della rilassatezza. Dj Illvibe è il figlio di Schlippenbach e ha vivacizzato e colorito l’eloquio contenuto del padre con incredibile sfacciato sapiente virtuosismo: sibili, campanellini, spiazzanti lacerti di improvvisazioni jazzistiche antiche si sono sovrapposti alle distillate sequenze schlippenbachiane. Una meraviglia.

Due chitarre elettriche, chitarra basso, viola, violoncello, percussioni, vibrafono, tromba, sax tenore (quello di Ingrid Laubrock, ospite abituale): questo l’organico dell’ottetto berlinese Serenus Zeitblom. L’anno scorso al festival A l’arme! della capitale tedesca questi musicisti erano stati meditativi e appunto «sereni» in una composizione laubrockiana. Quest’anno no. Più agitati e materici, forse in omaggio a Zappa. Un avvio su una fascia di suoni tenuti, qualcosa di psichedelico, l’ombra di Ligeti. Poi l’ombra anche più marcata è diventata quella di Braxton. Frasi smozzicate boppistiche a intarsio. Passaggi rumoristi in abbondanza, dirompenti o misterici. Una radicalissima ninna-nanna con la tromba di Ritsche Koch in primo piano. Tumultuosi e fantasiosi assoli della vibrafonista Els Vandeweyer. Grande musica senza mai una frase compiuta.

Otto anche i solisti riuniti da Andrea Massaria per una escursione in un territorio che è risultato zappiano solo per l’utilizzo acuto, musicalissimo, di qualche parlato registrato di Zappa. Tutte stelle: il leader alla chitarra elettrica, Pasquale Mirra al vibrafono, Danilo Gallo al basso elettrico, Giovanni Mancuso al pianoforte, Bruce Ditmas e Cristiano Calcagnile alla batteria, Walter Prati e Patrik Lechner ai live electronics. Si potrebbe parlare di minimalismo in salsa free jazz classico per via dell’accumulo in collettivo di suoni-eventi reiterati in un spazio ristretto. Ma le composizioni aperte di Massaria sono state assai complesse quanto ai materiali e ai riferimenti: echi stravolti di rock e di «contemporanea» si sono notati.

Così come un continuum di esplosioni delle batterie in stile squisitamente freejazzistico (Elvin Jones+Ed Blackwell+Paul Lytton al quadrato). Così come le fantasmagorie intermittenti dei due maghi dei live electronics. Principi nelle sortite solistiche: Mirra e Mancuso, uno lirico-avant, l’altro folletto «tayloriano e oltre» assolutamente felice.

I Rubatong hanno conquistato la platea. Giustissimo. Forse il pensierino a Zappa li ha resi più «quadrati», più rock, con meno uso di quei ritardi e anticipi sul tempo (il loro «rubato» per cui vanno famosi). Il loro universo in fondo è il blues e ancora una volta l’hanno evocato con commozione. E il cantante-poeta Han Buhrs, espressionista, surreale, ha confermato di essere un personaggio strepitoso.

Il resto. Accademia buona e velleità pessime. Il trio Peter Brötzmann-William Parker-Hamid Drake è maestria post-free di altissimo livello ma senza una curiosità in più nelle teste. Il pianista Matthew Shipp ha omaggiato David S. Ware alternando retorici neoromanticismi pop a quelle sue notissime improvvisazioni «in punta di tasto». La violoncellista Tomeka Reid ha fatto soft jazz nell’impianto del suo quartetto, però regalando insieme alla chitarrista Mary Halvorson assoli informali fascinosi.

L’orchestra tedesca Andromeda, dotata di una mirabolante capacità tecnica, ha sciorinato motivi a incastro dentro una logica tra minimal e neo-swing era. Divertenti, abilissimi, ma vuoti. Poi c’è stato quello che voleva fare il Zappabis. Il batterista Sean Noonan ha combinato pasticci musicali e scenici a tutto spiano (compresi un simil-Glass e un balletto folk «come sull’aia») dimenticando che il «cattivo gusto» zappiano non è ripetibile.