«Ti chiesi io, Creatore, dall’argilla di crearmi uomo, ti chiesi io dall’oscurità di promuovermi…?». Così parla Adamo dopo la Caduta nei versi del Paradiso Perduto di Milton. Oggi questa relazione tra creatore e creatura torna prepotentemente di attualità, specie se l’agente causale della creazione è l’uomo stesso. È recente, infatti, la notizia del riuscito trapianto, per la prima volta in Europa – in Inghilterra – di un cuore espiantato da un cadavere, di un organo cioè clinicamente morto, consentito da una tecnica di «ricondizionamento» dei tessuti. Una metodica che apre la porta all’entrata nella vita reale di quell’archetipo dell’immortalità fisica attraverso la rivitalizzazione della materia organica, già magistralmente illustrato dal Frankenstein o il moderno Prometeo di Mary Shelley.

I Prometei del passato

Prometeo: il Titano che rubò il fuoco dagli dei per donarlo all’umanità; da sempre il simbolo della liberazione dalla schiavitù dell’ignoranza e l’anelito alla conoscenza come fonte di libertà. Ma anche la metafora della hýbris, dell’orgoglio che vìola leggi immutabili, con la conseguente némesis, la punizione divina, in questo caso per una conoscenza di forze superiori che si possono rivoltare contro chi non è in grado di gestirle, perché il livello evolutivo non è ancora in grado di disperdere le ombre che scaturiscono dalla loro luce.

E così, prima del mostro gotico per eccellenza, la Creatura di Mary Shelley, altri antecedenti mitologici e letterari ci narrano della volontà dell’uomo di ricreare la vita imitando il suo stesso Creatore. Già nella Bibbia, nel Salmo 139-16 infatti, compare la figura del Golem. Il termine deriva probabilmente dalla parola ebraica gelem che significa «materia grezza» o «embrione», che gli Ebrei accomunano ad Adamo prima che gli fosse infusa l’anima.

Secondo la tradizione cabalistica, dai poteri legati alla meditazione sui nomi di Dio si può fabbricare un Golem di argilla che può essere usato come servo. Si dice che il Golem sia stato creato attraverso le formule contenute nel Sefer Yetzirah – «Libro della formazione» o «Libro della Creazione» – il più importante testo di riferimento dell’esoterismo ebraico risalente alla sapienza di Avraham, Abramo, che si distingue per l’esegesi dell’alfabeto e della corrispondenza tra la dieci Sefirot e l’anatomia del corpo umano. Le Sefirot nella Cabala ebraica sono le dieci «emanazioni» divine, cioè le modalità o gli «strumenti» attraverso cui Dio si rivela e continuativamente crea sia il Regno fisico che la Catena dei Reami metafisici superiori (Seder hishtalshelus).

Il Golem era ritenuto incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché privo di un’anima che nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgli. Questo sottile diaframma separa, almeno nella tradizione cabalistica, il Creatore dall’uomo, incapace di generare la coscienza di sé: ciò che distingue in essenza la vita superiore da quella inferiore.

Nelle storie narrate da Ahimaaz ben Paltiel, cronista medievale del XII secolo, si narra come nel IX secolo il rabbino Ahron di Bagdad, scoprisse un Golem a Benevento: era un ragazzo cui era stata donata la vita per mezzo delle formule magiche contenute nel Sefer Yetzirah. Sempre alla fine del IX secolo, secondo Ahimaaz, nella città di Oria, in Puglia, risiedevano dei sapienti ebrei capaci di creare il Golem. È interessante notare come le lettere, che per la tradizione cabalistica potrebbero essere utilizzate per creare un Golem, sono le stesse conservate nelle piccole Mezuzah – contenitori del deuteronomio – simboli di alleanza con Dio, che si trovano presso le porte di ingresso delle case ebraiche.

Ancora oggi, ad esempio nel ghetto di Venezia, è possibile osservarle. La Mezuzah viene fissata obliqua, come la vita. La sua funzione è rendere coscienti dei propri doveri. Per i mistici ebrei, dunque, la vita non si illumina se non c’è volontà consapevole. I cabalisti dicono che solo così si può varcare Malkhut: la sefirà ove la luce cambia direzione, passando dalla discesa alla salita. In chi non ha meriti è il luogo ove si fa esperienza della Caduta; per chi esercita la retta intenzione è invece l’inizio della trasfigurazione; evidentemente tra le rette intenzioni non rientra la volontà di ricreare la vita.

Tutte le leggende inerenti il Golem, infatti, hanno in comune sia la volontà creatrice dell’uomo che si vuole elevare a Demiurgo, sia la punizione divina per un’opera prometeica che travalica le sue capacità. Non a caso la figura del Golem viene richiamata nel romanzo della Shelley come ispirazione del dottor Frankenstein sia dal punto di vista dei limiti della creazione umana, anche la Creatura è apparentemente senza anima, sia dal punto di vista della particolarissima nemesi divina che si manifesta attraverso l’attivazione di una oscura forma di coscienza da cui l’essere creato dall’uomo è comunque in qualche modo animato e che finisce, proprio per questo, per rivoltarsi contro il suo creatore che non lo riconosce per ciò che egli sente di essere: un’entità forse non umana e tuttavia dotata di una consapevolezza propria che vuole essere gratificata.

Tutti questi elementi sono magistralmente riassunti nella vicenda del Golem creato da Rabbi Loewe (1513-1609), celebre rabbino in Praga, costruttore, secondo la leggenda, di un potentissimo essere di fango, usato come schiavo ma che, ad un certo punto, si ribella al dominio del suo dispotico creatore. La storia narra come il Golem si rivoltasse proprio perché non era riconosciuto in lui lo «spirito», la sua vita equivalente.

Nel XII secolo esisteva una versione della leggenda secondo la quale, per animare il Golem, veniva scritta sulla sua fronte la parola «verità», in ebraico תמא emet; quando veniva cancellata la lettera iniziale, l’Aleph, restava la parola «morte», תמ met, ed egli si disanimava. Un giorno il rabbino lasciò il servo di fango da solo; arrivata la sera il Golem trovò una sua forma di esistenza e libertà tra le polarità opposte della vita e della morte. Inebriato da questa nuova sensazione fuggì seminando panico tra gli abitanti del ghetto ed alla fine solo la presenza di un bambino, un essere come lui innocente, lo fermò. La scena finale è questa: il Golem si inchina dinanzi al bambino che, invece di cancellargli la lettera, accarezza tutta la parola, così che egli possa finalmente morire, come un essere che ha veramente vissuto.

Una versione della leggenda, illustrata da Dino Battaglia e pubblicato sulla rivista Linus nel maggio del 1971, finisce con questa frase illuminate: «Chi potrà dirci cosa pensava Dio nel guardare il suo rabbino in Praga?».

Altro essere creato dall’uomo attraverso le arti arcane è l’Homunculus attribuito, tra gli altri, a Paracelso, il celebre medico ed alchimista svizzero (1493-1514), il cui vero nome era Philipp Theophrast von Hohenheim. Nel testo del suo De natura rerum, per la verità più probabilmente un testo pseudoparacelsiano, troviamo una ricetta in proposito, che parte da uno spermatozoo (la fonte di vita), opportunamente allevato: «Se la fonte di vita, chiusa in un’ampolla di vetro sigillata ermeticamente, viene seppellita per quaranta giorni in letame di cavallo e opportunamente magnetizzata, comincia a muoversi e a prendere vita. Dopo il tempo prescritto assume forma e somiglianza di essere umano, ma sarà trasparente e senza corpo fisico. Nutrito artificialmente con arcanum sanguinis hominis per quaranta settimane e mantenuto a temperatura costante prenderà l’aspetto di un bambino umano. Chiameremo un tale essere Homunculus, e può essere istruito ed allevato come ogni altro bambino fino all’età adulta, quando otterrà giudizio ed intelletto».

Questa trasfigurazione guiderà anche la creazione dell’Homunculus nel Faust II di Goethe. A questo proposito Pietro Citati, nel suo Goethe, osserva che la meta che Faust si propone è la più alta meta simbolica che Goethe abbia mai proposto agli uomini: redime e salvare la natura.

Da notare anche in Paracelso, come poi sarà in Frankenstein, il riferimento alla «magnetizzazione» come forza agente della rivitalizzazione di sostanze organiche, che troviamo già nel ‘700 ad animare un «falso automa» per eccellenza, il Turco del barone ungherese Wolfgang Von Kempelen. Anche questa fantastica macchina, infatti, capace di giocare a scacchi e di sconfiggere i più grandi scacchisti europei ed americani di quel secolo, si diceva fosse animata dal «magnetismo animale» studiato da Franz Anton Mesmer (1734-1815) e dunque noto con il nome di «mesmerismo».

La notorietà del «mesmerismo» è tale che Mozart, nel finale del primo atto della sua celebre opera Così fan tutte, fa «resuscitare» Ferrando e Guglielmo dalla cameriera Despina la quale, travestita da medico, rianima i due servendosi di una calamita, mentre canta: «Questo è quel pezzo di calamita: pietra mesmerica, ch’ebbe l’origine nell’Alemagna, che poi sì celebre là in Francia fu».

Va detto che anche E. A. Poe, indagatore del segreto del Turco, era un seguace del «mesmerismo», tanto da scrivere alcuni celebri racconti sull’argomento, tra i quali Rivelazione Mesmerica (o Magnetica), in cui racconta di un soggetto «mesmerizzato» che, in punto di morte, comincia a descrivere la vita nell’aldilà. Qui lo scrittore dei più avvincenti racconti dell’orrore senza nome rovescia, in questo modo, l’archetipo delle creazione della vita mondana in quella dell’aldilà.

Galvani e Volta

Ma, oltre a queste ascendenze leggendarie o mistiche presenti nel romanzo, al tempo della concezione del Frankenstein furono ben più attuali ed influenti le evidenze scientifico sperimentali, dato che sin dalla metà del XVIII secolo diversi studiosi stavano esplorando la concreta possibilità di rivitalizzare la materia inerte rendendogli quel «fluido vitale», come si pensava allora, che distingueva la vita organica da quella inorganica. La lunga serie di tentativi concreti di dare nuova vita ai tessuti morti nasce con il «galvanismo», termine derivato dagli esperimenti di Galvani e di Volta.

Lo scienziato bolognese studiò in particolare il cosiddetto fenomeno dell’elettricità animale sviluppando, sulla base di questo assunto, la teoria secondo la quale gli esseri viventi fossero in possesso di una sorta di elettricità intrinseca prodotta dal cervello, propagata al corpo tramite i nervi, ed infine immagazzinata nei muscoli. Gli esperimenti del padre della neurofisiologia nascono dalle osservazioni di Benjamin Franklin che, nel 1750, aveva dimostrato come nell’atmosfera fosse presente una carica elettrica naturale che genera i lampi. Così Galvani nel 1786 cercò di capire se e come l’elettricità presente nell’atmosfera potesse generare contrazioni muscolari; si accorse ben presto, però, che i due fenomeni, quello naturale cioè estrinseco e quello endogeno, intrinseco ai corpi – in questo caso delle famose «rane preparate» – erano sì di natura simile, ma diversi per generazione.

Lo scienziato, come spesso succede, ebbe l’intuizione fondamentale durante un ennesimo esperimento per collegare l’elettricità naturale al fenomeno delle contrazioni: era il 1781; Galvani, aveva «preparato» una rana, con i nervi crurali e il midollo spinale isolati, e l’aveva posta ad una certa distanza da una Bottiglia di Leida, il primo rudimentale generatore di energia elettrica messo a punto, nell’omonima città, dall’olandese Pieter van Musschenbroek nel 1746. Durante lo scocco di una scintilla un assistente toccò per distrazione con la pinza il nervo crurale scoperto e questo provocò un’intensa contrazione delle cosce dell’animale.

Galvani rimase impressionato dall’evento – la possibilità cioè che esistessero altre forme di elettricità, oltre quella naturale estrinseca – e decise di approfondire l’intuizione.

Dopo diversi esperimenti riuscì finalmente ad ottenere delle contrazioni collegando, attraverso un conduttore metallico, le strutture nervose, nervi o midollo spinale, ai muscoli delle zampe. In questo modo Galvani aveva creato un sorta di circuito simile a quello che si formava proprio nella Bottiglia di Leida.

Nel suo De viribus electricitatis in motu musculari commentarius del 1791, il bolognese illustra le sue conclusioni: esiste negli animali una elettricità intrinseca che egli chiama «elettricità animale».

Negli animali, dunque, esiste la capacità di immagazzinare il fluido elettrico e di mantenerlo in uno stato di eccitazione potenziale che l’arco conduttivo è in grado di mettere in movimento producendo la contrazione muscolare.

Questa teoria fu poi contestata da Volta che iniziò a considerare l’idea che l’elettricità potesse derivare dai metalli stessi. Benché Galvani dimostrasse, nel 1797, che la contrazione poteva essere provocata connettendo direttamente due nervi dell’animale senza l’utilizzo dell’arco metallico, questo esperimento, considerato come fondante l’elettrofisiologia, non venne compreso nelle sue implicazioni poiché Volta era riuscito nel frattempo a creare una macchina che poteva generare energia: la pila.

Il successo di questa invenzione portò in auge Volta e l’ipotesi dell’elettricità animale venne accantonata.

Tuttavia qualche decennio dopo, quando si comprese che a generare l’elettricità della pila erano gli ioni presenti nella soluzione salina e che il ruolo dei metalli era solo quello di trasformare l’energia chimica di questi ioni in energia elettrica, le intuizioni di Galvani furono rivalutate.

Frankenstein Junior

In tutto questo la parte di comprimario venne giocata dal nipote di Galvani, Giovanni Aldini, una sorta di Frankenstein Junior che, tra il 1802 e il 1803, a Londra, eseguì degli esperimenti su cadaveri umani e animali con l’esplicito intento di riportarli in vita: collegava alcuni elettrodi a teste mozzate ottenendo così delle contrazioni dei muscoli pellicciai (quelli che generano le varie espressioni del volto) e, mirabile visu, a volte l’apertura delle palpebre, con effetti sugli spettatori che si possono immaginare. Se poi gli elettrodi venivano collegati ai corpi decapitati si avevano vere e proprie convulsioni e movimento degli arti che, per un momento, davano l’illusione di una possibile rinascita.

Come ci ricorda Alex Boese nel suo documentatissimo Elefanti in acido, la dimostrazione più celebre rimane quella svoltasi a Londra, al Royal College of Surgeons, il 17 gennaio 1803: «L’assassino ventiseienne George Forster, impiccato per l’omicidio di moglie e figlio, appena staccato dalla forca fu portato nella sala del collegio. Aldini collegò i poli di una batteria rame-zinco da 120 volt a diverse parti del corpo di Forster: al volto innanzitutto, quindi alla bocca e alle orecchie. I muscoli della mascella ebbero uno spasmo e l’espressione dell’assassino divenne una smorfia di dolore. L’occhio sinistro si aprì, fissando sbarrato il suo torturatore. Aldini divenne l’onnipotente burattinaio di quella marionetta disarticolata: fece battere un braccio sul tavolo, inarcare la schiena, fece aprire i polmoni in un angosciato respiro.

Poi, il gran finale: collegò un polo ad un orecchio e infilò l’altro nel retto. Il cadavere cominciò una danza grottesca e terribile. Scrisse l’inviato del London Times che la mano destra si era alzata stringendo il pugno, mentre le gambe e i fianchi avevano iniziato a muoversi. Agli spettatori non informati su quel che stava succedendo sembrò davvero che il corpo di quel disgraziato fosse sul punto di riprendere vita».

Non sappiamo se Aldini abbia anche tentato di rigenerare stabilmente un singolo organo morto, cosa improbabile per quei tempi senza trapianti, ma sappiamo per certo che proprio dai suoi esperimenti Mary Shelley trasse ispirazione per il personaggio del dottor Frankenstein.

L’intelligenza del cuore

Dagli esperimenti di rianimazione dell’800 dovremo attendere un centinaio di anni prima di arrivare alle tecniche trapiantistiche attuali, favorite nel tempo da una maggiore conoscenza sia della neurofisiologia e dell’immunologia, sia da un avanzamento tecnologico in vari campi correlati. Si arriva così al primo intervento, quello operato da Christian Barnard nel lontano 1967, con tutti gli interrogativi che poneva la nuova tecnica: cos’è una persona, cosa ne forma l’individualità unica ed irripetibile, è possibile «restare se stessi» ricevendo organi di un altro individuo, soprattutto il cuore, vaso simbolico dei sentimenti e delle regioni più profonde dell’essere? Ma Barnard, e molti altri dopo di lui, aveva trapianto un cuore pulsante, vivo. Oggi, con il «ricondizionamento» di un cuore morto trapiantato su un vivo, questi interrogativi si espandono ulteriormente: è ammissibile rianimare un cadavere, cioè resuscitarlo? Porsi cioè alla stessa stregua della divinità, per chi ci crede almeno, che ne ha decretato la morte? In questa serie di questioni, da cui ovviamente ne conseguono molte altre – prima tra tutte la definizione stessa di morte – risiede il senso di un dibattito che ondeggia tra psicologia, etica, medicina e religione.

Nessun organo come il cuore, infatti, assomma in sé sia la simbolica del principium individuationis cioè dell’unicità identitaria di un individuo, sia quello di una «intelligenza superiore», l’intelligenza del cuore appunto, in grado di far risuonare il nostro organo con quello della Creazione e del suo Creatore stesso, simboleggiato nell’iconografia cristiana, dal Cuore di Gesù o da quello della Vergine dei sette dolori, trafitto di spade.

«Il cuore e non la ragione sente Dio» dice Pascal. Ma è certamente S. Agostino il fondatore del primato del cuore: «Non corporis voce, quae cum strepitu verberati aeris promitur, sed voce cordis, quae hominibus silet, Deo autem sicut clamor sonat»non con la voce del corpo, la cui sonorità risulta dalla vibrazione dell’aria, ma con la voce del cuore, che è silenziosa per gli uomini, ma innanzi a Dio risuona come un grido. Una visione religiosa avvalorata poi sul piano laico dall’avvento dell’Amor Cortese di cui Dante, suo seguace, si servirà nel descrive il Paradiso.

Ma la supremazia del cuore in quanto organo centrale dell’individualità, più fondante in questo senso del cervello, la troviamo già in Aristotele che, nel suo De generatione animalium ci dice come sia il cuore che primo si sviluppa e poi, a sua volta, sviluppa l’embrione, arrivando ad affermare che «il principio naturale è nel cuore».

Anche Isidoro di Siviglia, l’enciclopedico saggista medioevale, nel suo monumentale trattato Etymologiarium sive Originum afferma che: «Cuore è nome derivato dal greco kardias, ovvero dal sostantivo cura: nel cuore, infatti, risiedono ogni sollecitudine e causa di conoscenza (causa scientiae)».

James Hillmann nel suo L’anima del mondo ed il pensiero del cuore sostiene che l’inizio del processo di «ricomposizione» della scissione che esiste tra il mondo dentro e quello fuori di noi muove dalla consapevolezza di una comune appartenenza. Per renderla effettiva è necessario «scrutare consapevolmente l’abissale che esiste dentro-fuori di noi, restando in equilibrio, soffermandoci in questo pensiero». L’abissale, secondo Hillmann è il nostro stesso cuore, la nostra essenza più contraddittoria ed inesplorata.

Evidentemente il cuore del quale parla lo psicanalista del Puer Aeternus è quello simbolico, sede della forza vitale che ci collega con l’anima del mondo. «È questo il cuore che vogliamo in petto», continua Hillmann, «non la mera pompa che si guasta in-farcita dello stress cui ci sottopone la vita nella modernità». L’immagine che abbiamo del nostro cuore è dunque fondante, perché ce lo restituisce come visione di qualcosa che è precisamente dentro-fuori di noi, che lega il nostro corpo particolare con il resto del mondo, pompando il fluido vitale che collega, attraverso l’ossigeno, ogni singola cellula proprio a quella atmosfera che ci consente la vita. Questa capacità del cuore di immaginarsi nel mondo allo stesso tempo immaginando il mondo, cioè creandolo dalla natura stessa della sua propria natura, è detta himma dal poeta-filosofo Ibn Arabi.

Certo il cuore è anche l’organo delle passioni più feroci, basti pensare all’episodio del Decamerone in cui Messer Guiglielmo Rossignone dà in pasto a sua moglie il cuore di Messer Guardastagno, ucciso da lui perché amante da lei. L’antropofagia poi, in ogni tempo e cultura, ed ancora oggi negli episodi più barbari delle guerre attuali, vede l’atto di strappare e poi mangiare il cuore del nemico sia come forma di appropriazione delle sua forza vitale sia come estremo sfregio al suo cadavere.

Anche nella Vita nuova, però, sempre in omaggio alla visione «cordiale» dell’Amor Cortese, Dante sogna che la sua amata gli mangi il cuore, volendo con questo simboleggiare il rapimento spirituale che lo coglie alla vista della figura di Beatrice. Arrivando ai nostri tempi, basti riferire l’inquietudine della signora Washkansky, moglie del primo trapiantato che, alle domande dei giornalisti sul suo stato d’animo rispondeva: «Quello che realmente mi preoccupa è che mio marito non mi ami più». Ancora più sottile, però, fu il senso della risposta alla domanda posta al trapiantato stesso che aveva, da ebreo, avuto in dono dalla chirurgia il cuore da un «gentile»: Washkansky disse che «si sentiva» benissimo, come pure il secondo trapiantato da Barnard che ricevette, da bianco nel Sud Africa razzista, il cuore di un nero, con la conseguenza di una lunga diatriba filosofico-politica sulla possibilità che il cuore di un nero potesse entrare, con il suo nuovo corpo, nei locali per soli bianchi!

Infine vale la pena ricordare un topos della miracolistica cristiana: il trapianto ad opera dei Santi Medici Cosima e Damiano, nel III secolo d. C., della gamba di un nero su un bianco.

E dunque, anche se la scienza avanza di buon passo, le ascendenze filosofiche e simboliche resteranno permanenti per molto altro tempo mettendo il nostro cuore al posto giusto, facendone sempre cioè il luogo dell’identità sentimentale, anche quando, forse un giorno non lontano, saremo tutti delle nuove Creature perché, nonostante le diverse parti possano provenire da corpi diversi, come diceva già Nietzsche, «ciò che pensa ed ama è il nostro corpo nel suo insieme».