Ha le mani intrecciate sul ventre, la statura minuta, il corpo di una donna che ha vissuto; lo tiene avvolto in uno scialle-coperta, a colmare un gelo interno, siderale; il viso provato e attentissimo, gli occhi cerulei, dietro lenti a fregarsene delle mode, sospesi in un brillio tenero e penetrante: appuntata sul seno, a mo’ di fiore, protetta da una custodia di plastica, una foto del suo matrimonio, solo tre anni prima che il suo sposo le fosse sottratto, che divenisse desaparecido. «Ho cercato mio marito per 36 anni. L’ho cercato da sola, in tutti i punti della terra. Sono anche stata all’assemblea delle Nazioni Unite, chiedendo mi aiutassero a scoprire cosa ne fosse stato di lui». Guardo Fresia Cea Villalobos, così come l’ha vista Corrado Punzi nel documentario a lei dedicato (titolo, semplicemente Fresia, come quel fiore), mentre assiste al processo all’uomo accusato del sequestro e dell’assassinio di suo marito Omar Venturelli, allora docente presso l’università di Temuco, in Cile, e risento come un’eco di Emily Dickinson. «L’acqua è insegnata dalla sete./La terra, dagli oceani traversati./La gioia, dal dolore./La pace, dai racconti di battaglie. /L’amore, da un’impronta di memoria …».

Memoria, sì. Perché la memoria ha un ruolo cardine in questa storia, ne è fulcro e fuoco, ma al tempo stesso materia dalle tante facce. Memoria personale e familiare, e memoria di un Paese, memoria come solco d’affetto inesprimibile che nessuno strappo o trauma può intaccare, ma anche come assenza, rimozione, e oblio, politicamente indotto a un intero popolo, come pietra scientemente posta a nascondere un baratro enorme nella Storia. Ecco, si è aperto lo stillicidio. È solo l’indomani dell’11 settembre cileno. 1973, il presidente Allende assassinato nel Palacio della Moneda e la deflagrazione di un progetto democratico cui il mondo guarda con attesa e speranza, che già si riverbera mortiferamente sulle vite delle donne e degli uomini di quel Paese. Quel giorno Fresia accompagna in taxi il marito nei pressi dell’università. Sarà l’ultima volta che lo vede, che parla con lui, che può toccarlo, sentirne l’odore, la voce. È ferita lacerazione squarcio che si apre tra loro, lì proprio dove si erano conosciuti: lei studentessa di pedagogia, e lui, dopo aver scelto di lasciare il sacerdozio, professore presso il dipartimento di educazione. Poi entrare in quell’assenza, sentirne il calvario che si fa strada attraverso la pelle. Ha origini italiane, Venturelli, ed è in Italia che Fresia e la piccola figlia – nata dalla loro unione nel ‘71 – Maria Paz (per sempre e nell’unica lettera giuntale rocambolescamente dal carcere, dal padre: Pacita, querida Pacita), nel ‘74 sono accolte come rifugiate politiche.

Nello spazio tra i due Paesi si dirama questa ricerca infinita. In Cile, dove Rossellini era stato inviato per studiare l’esperimento democratico di Allende e per intervistarlo, producendo La forza e la ragione, lavoro documentaristico inestimabile che, per un scherzo deforme della Storia, la Rai trasmette solo all’indomani dell’omicidio del presidente; in Cile, dove Fresia riceve attraverso un prigioniero comune gli abiti da lavare del marito, con bigliettini che poi fa sparire mangiandoli (ricordi i western italiani che vedevamo insieme? Non sono nulla in confronto a quello che accade qui in carcere. Non ho più nemmeno le unghie), perdendone le tracce il 4 ottobre, e dove negli anni fonda una ong a supporto delle donne come lei scavate dal dolore e dalla lotta per riavere i propri cari inghiottiti dalla dittatura («tante si ammalano di cancro, come è successo alla madre di Omar, come è successo a me, che ho sempre freddo, anche quando fuori è afa»); in Cile, dove al suo centro incontra nel 2002 Marta Vignola, avvocata italiana che le sarà accanto al processo contro l’assassino di suo marito, amica in quel che resta della vita, nonché promotrice del doc insieme al regista leccese, da anni indagatore dello strazio cileno (a produrre, ci sono anche Marco Bechis e Mattia Soranzo, il montatore – il film è, tra gli altri, a «Sguardi altrove» a Milano lo scorso marzo -).

E in Italia, dove Alfonso Podlech, prima avvocato di Pinochet e poi procuratore militare, accusato di strage e dell’omicidio nonché del sequestro di Omar Venturelli, dopo essere stato arrestato a Madrid nel 2008, è poi estradato e processato dalla prima corte d’Assise di Roma (2009/2011). In Italia, dove ha luogo l’indagine del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, sulle tracce di alcuni italiani cancellati dalle dittature militari in America Latina (quest’anno si è aperto sempre a Roma il processo relativo al Piano Condor, strategia americana per minare i dirompenti processi politico-sociali in quel continente), e dove dà frutto la tenacia inamovibile di quei familiari che per 40 anni si oppongono al «complotto del silenzio» – sono Omar Venturelli, mi hai dimenticato? Indugia la camera sul volantino col bel volto di lui (una legge del regime, oggi sconfessata da Michelle Bachelet, prevedeva l’impunità per i militari e i civili macchiatisi tra il ‘73 il ‘79 di crimini di lesa umanità) – dei testimoni e compagni di prigionia di Omar, vittime della ferocia di Podlech, il coraggio fiammeggiante di Fresia, il suo guardare in e oltre la macchina: «Dover condividere la stessa aria dei torturatori, ritrovarseli fianco a fianco è una tortura in più». Come andrà, lo sapete già o potete facilmente saperlo. Perché nessuno riesce a stare accanto a Fresia negli istanti mostruosi che seguono il verdetto? «Mia figlia e io abbiamo vissuto una vita di dolori indicibili. Continueremo a indagare, scopriremo cosa è successo al tribunale di Roma».

Mentre lei invece enormemente sa stare con chi l’ha amata anche dopo il momento in cui tutto si compie. Lei che ancora canta leggera in quei video 8 del 2002, lei che Marta ringrazia per quello che le ha insegnato, lei come gli uccelli che volano inafferrabili dinanzi alle facce di pietra delle statue della giustizia italiana, lei, per quasi 40 anni «vedova presunta», lei che, mentre il suo Paese ancora stenta, ha già saputo attraversare la prima luce accecante di uscita dal buio (mentre la camera abbraccia il marmo col nome di Allende e degli altri «suicidati» dalla dittatura). Lei che a una domanda stonata di Marta, perdoneresti Podlech? risponde: perché mai. Non sono il padreterno. Il perdono umano come l’amore non è gratuito, come potrei perdonare chi non chiede perdono, chi non mi guarda in faccia. Questa per me è la teologia della liberazione». Lei, bellissima con la chitarra, nelle foto in bianco e nero, lei che prepara le danze per il suo funerale. «È stato bello, no? Oggi avevo tanta voglia di dimenticare il dolore».