Sentii parlare per la prima volta dello psichiatra svizzero Ludwig Binswanger da Luigi Gozzi, membro del Gruppo 63, drammaturgo allora esordiente, poi direttore a Bologna del Teatro delle Moline. Era la fine degli anni sessanta e Gozzi stava elaborando una poetica centrata sul manierismo dell’attore, ispirata, tra l’altro, anche a Tre forme di esistenza mancata, il primo libro di Binswanger, del 1956, tradotto in italiano nel ’64. Dedicato al manierismo, il saggio ne proponeva una accezione assai ricca e complessa, nutrita non solo dall’esperienza clinica ma anche da vaste conoscenze in ambito figurativo e letterario: utilizzava, per esempio, il capolavoro di Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, del 1948, per dimostrare come la pratiche linguistiche di alcuni manierismi schizofrenici, che affettano caratteristici stereotipi espressivi, si apparentino a antiche tecniche letterarie e retoriche.
Mentre si capisce, dunque, l’analogia tra il manierismo attoriale cui Gozzi si dedicava nel teatro d’avanguardia di quegli anni e la «paranoia critica» surrealista, ancora più interessante è vedere come il risultato delle ricerche di Binswanger fosse un brillante esempio di quella che egli chiamò la Daseinanlyse, tradotta un po’ approssimativamente qui da noi (e in francese) come «analisi esistenziale», vale a dire una indagine che cerca la fondazione delle categorie psichiatriche nella fenomenologia husserliana e nel pensiero di Martin Heidegger.
Una delle conseguenze di questo orientamento, e uno degli aspetti più significativi della Daseinanalyse, stava nello sfumare il confine tra il normale e il patologico, mostrando le radici dei fenomeni studiati dalla psichiatria nell’esistenza umana cosiddetta normale, vale a dire nell’essere-del-mondo dell’Esserci (Dasein) come era stato indagato in Essere e tempo da Heidegger. Poco dopo che Binswanger pubblicò Tre forme , dedicato a Heidegger, questi sconfessò lo psichiatra svizzero – che del resto era sempre stato consapevole del fatto che le sue indagini riguardavano i problemi dell’esistenza e non la domanda sull’esistenza – e liquidò con pochi, sprezzanti giudizi quel Freud che, viceversa, Binswanger avrebbe considerato sempre un maestro.
Figlio e nipote di psichiatri, Binswanger aveva studiato nel Burghölzli di Zurigo, la celebre clinica diretta dal grande psichiatra Eugen Bleuler, dove aveva lavorato con 0Chiunque conosca le affascinanti ma turbolente vicende della nascita e del primo sviluppo della psicoanalisi sa che quasi mai il distacco degli allievi dal padre fondatore si è consumato senza traumi e recriminazioni, e sa come di solito questi si concludessero non solo nell’interruzione di ogni relazione, ma nella reciproca disistima: il rapporto tra Binswanger e Freud costituisce una felice eccezione.
La storia di questa solida e generosa amicizia, che si mantenne nonostante il dissenso intellettuale tra i due, venne descritta dallo psichiatra svizzero in un volumetto del 1956 –Ricordi di Freud (Astrolabio 1971) seguendo la falsariga della sua corrispondenza con Freud, ora integralmente tradotta e curata da Aurelio Molaro in un bel libro: Sigmund Freud-Ludwig Binswanger, Lettere 1908-1938 (Cortina, pp. 316, euro 29,00) di piacevole interesse, benché l’introduzione sia impegnativa e un po’ ridondanti le note, fin troppo erudite.
Sullo sfondo delle vicende della scuola freudiana, si possono seguire le biografie dei due corrispondenti, scoprendo, per esempio, un Freud affettuoso, che nel 1912 pur di visitare Binswanger gravemente ammalato (era stato operato per un tumore) urta la suscettibilità di Jung, che pure considera il suo allievo più promettente: come si sa, i primi dissapori con quello che gli era sembrato l’erede destinato a succedergli alla guida del movimento psicoanalitico sarebbero sfociati nella più famosa delle eresie e nella costituzione di un indirizzo di ricerca ancor oggi autonomo e rivale alla teoria e al metodo freudiani.
Se non si consumò una rottura tra Binswanger e Freud, questo dipese non solo dal carattere di entrambi, ma anche dalla apertura della loro intelligenza, nonché da una disponibilità alla speculazione teorica, particolarmente pronunciata nello psichiatra svizzero, attratto fin da giovane dalla filosofia, interesse al quale nemmeno il suo interlocutore era peraltro estraneo. Le divergenze tra i due, in effetti, non derivano tanto dalla maggiore apertura di Binswanger al pensiero filosofico, da lui fin troppo sottolineata, di contro all’orientamento più scientifico di Freud, quanto a ciò che si rende evidente in una lettera del padre della psicoanalisi, il quale scherzosamente mette in guardia l’allievo dal «demonio» della filosofia, intendendo le speculazioni metafisiche che secondo lui, risolutamente ateo e materialista, possano ostacolare la conoscenza.
Così, quando Binswanger nel 1928 gli fece avere il suo volumetto sul sogno, Freud da una parte si congratulò, ma dall’altra non mancò di criticare la pagina conclusiva in cui Binswanger faceva appello a una metafisica dello spirito che non poteva non condurre all’idea di Dio.Paragonando la religione a una sbronza senza alcol, Freud scriveva di essere sempre stato sobrio, se non astemio: aveva appena pubblicato L’avvenire di un’illusione, ma – diceva – mentre i bevitori di razza gli incutevano rispetto, «solo chi riesce a ubriacarsi con una bevanda analcolica mi è sempre apparso piuttosto ridicolo».
Giudizio che ribadì, seppur temperandolo nei modi, otto anni dopo, quando nel 1936, per festeggiare il suo ottantesimo compleanno, Binswanger tenne una conferenza, La concezione freudiana dell’uomo alla luce dell’antropologia, che è forse il suo testo più maturo e organico fra quelli dedicati al maestro. In quelle pagine espone i tratti a suo avviso essenziali della dottrina freudiana, centrata sull’idea dell’homo natura, vale a dire dell’uomo in quanto creatura naturale (in opposizione alle altre figure in cui una tradizione millenaria ha di volta in volta identificata l’essenza umana: l’homo coelestis, l’homo universalis e l’homo existentialis). Se Binswanger non esita a paragonare Freud a Goethe o a Nietzsche, nonché a riconoscere la grandezza rivoluzionaria e il rigore delle sue concezioni, è tuttavia ugualmente deciso nel prenderne le distanze, accusando la psicoanalisi di frantumare la totalità dell’esperienza umana e di ridurne la ricchezza, irrigidendola nella tensione tra pulsioni e illusioni.
Nel ringraziare affettuosamente Binswanger, Freud ribadì le sue posizioni con queste parole destinate a restare famose: «Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono sempre limitato al parterre e al souterrain dell’edificio – Lei sostiene che cambiando il punto di vista si possa vedere anche un piano superiore in cui abitano ospiti distinti come la religione, l’arte e altri ancora. Non è l’unico a pensarlo, è di questo parere la maggior parte degli esemplari civilizzati di homo natura. In tal caso è Lei il conservatore, io il rivoluzionario. Se avessi ancora una vita di lavoro davanti a me, mi permetterei di assegnare a simili individui di alto lignaggio un posto nella mia casupola. Per la religione l’ho già trovato, da quando sono approdato alla categoria di “nevrosi dell’umanità”. Ma probabilmente ci parliamo senza capirci, e il nostro contrasto si appianerà solo fra qualche secolo».