Eclettico e inafferrabile Marco Corona inizia a pubblicare alla fine degli anni ’90; la biografia di Frida è il suo primo vero fumetto ed esce nel 1998 con Stampa Alternativa e poi con Black Velvet nel 2006. Seguono libri molto dissimili tra loro per stile e tema, prima con Coconino Press (Bestiario padano, Riflessi 1-2-3, In mezzo, l’atlantico, L’ombra di Walt 1-2) e in seguito con Rizzoli Lizard (La seconda volta che ho visto Roma, Pinocchio) senza che questa varietà lo allontani dal divenire una figura fondamentale nello sviluppo del nuovo fumetto letterario. Laddove segno e tecnica cambiano, Corona, dimostrando, oltre che a un gran talento, la sua totale libertà, propone sempre narrative ben costruite e ben scritte, senza prescindere dall’influenza di alcuni autori culto (Herriman e il suo Krazy Kat, ma anche Robert Crumb, Andrea Pazienza, tra i più evidenti e citati). Krazy Kahlo, che esce adesso con 001Edizioni, sembra essere la prova più lampante di questo ricco e sorprendente percorso autoriale. Ne abbiamo parlato con l’autore a Bologna in occasione del Bilbolbul, festival internazionale di fumetto.
Krazy Kahlo è un omaggio lungo 10 anni. Da dove nasce la tua fascinazione per il personaggio di Frida e perché hai scelto di arricchire e ampliare la sua biografia?
Glielo dovevo, come un ultimo regalo a una donna che ho amato molto e che mi ha aiutato a definire il mio percorso di disegnatore di fumetti e non solo. La mia fascinazione per Frida è comune a tutti quelli che per caso le si sono spinti abbastanza vicini da essere risucchiati dal suo campo gravitazionale, un  fascino che traspare anche dalle foto, uno sguardo che mette a disagio. Dalla prima edizione in avanti ho cercato di aggiustare alcune cose, aggiungendo o togliendo delle parti, mantenendo comunque intatto l’aspetto generale fino ad arrivare a questa ultima versione.
Nella prima versione appariva il sottotitolo «una biografia surrealista». Come racconti nel tuo libro Frida ha rifiutato quest’etichetta eppure, se volessimo trovare un punto di contatto nel vostro lavoro, quell’aggettivo sarebbe tra i primi a venirci in mente. Esiste per te un’affinità artistica con la traiettoria di Frida, o quella che senti per lei è più una simpatia di tipo esistenziale?
Entrambe le cose. Aggiungere il termine «surreale» mi era sembrato e ancora mi sembra il modo migliore per affrontare un tema così complesso come la biografia. Sintetizzare e nello stesso tempo rendere credibile, o quantomeno verosimile, l’arco di un’esistenza è impossibile se non trovando una chiave che ti permetta di raccontare o, meglio, di evocare il senso di una vita che non sia solo un susseguirsi di date o avvenimenti chiave. L’ultima parte, che in realtà corrisponde alla prima parte che ho disegnato nel 1998, risente proprio di questa necessità di raccontare una vita attraverso delle date e dei momenti cardine che hanno segnato la vita di Frida, alternando l’invenzione grafica e narrativa slegate dalla pura biografia con l’intento di avvicinarmi in modo surreale e più evocativo all’immagine che mi ero fatto e che volevo dare di Frida. La simpatia esistenziale viene prima, dopo è nata una relazione che dura ancora oggi, nonostante i 10 anni di convivenza.
Rimaniamo sull’altalena del dato biografico, della rappresentazione e della finzione: durante la conferenza stampa del BBB, Chris Ware (uno dei più influenti fumettisti contemporanei) ha affermato che è il linguaggio stesso a distorcere la realtà. Che ne pensi? Credi invece che nel caso delle biografie sia il dato personale dell’autore, l’immedesimazione, per esempio, ad influire sulla rappresentazione?
Il linguaggio scritto e disegnato è un limite ma può anche diventare un punto di forza che ti permette non solo di distorcere la realtà ma di piegarla al tuo volere di autore. Naturalmente dipende da quanto diventi bravo e consapevole nell’utilizzare tale linguaggio. La distorsione è derivata dalla tua lettura e dalla successiva rappresentazione della realtà, che è solo uno dei molteplici modi di vederla e di rappresentarla. Le cose si complicano ulteriormente quando la tua visione viene successivamente vista e re-interpretata dal lettore che ha le sue personali chiavi di lettura. Non se ne esce vivi, questo è sicuro. L’immedesimazione è sicuramente un modo per avvicinarsi ad altre persone, cioè ad altri modi di percepire il mondo. Ma è solo un’illusione, l’unica certezza di questa vita.
Il dolore è il leitmotiv della vita e dell’opera di Frida. Si tratta di un’affermazione applicabile anche alla tua opera? Credi nel potere terapeutico dell’arte?
Soffrire è un altro modo di sentire le cose, più viscerale e profondo. Credo che l’arte possa aiutare a vivere come aiuta la compagnia di un cane o avere un’automobile o prendere un treno per arrivare da qualche parte. Se diventi un’artista probabilmente hai qualche problema e uno dei modi per affrontarlo è fare dell’arte. È un cane che si morde la coda.  L’arte come malattia e cura nello stesso tempo. 
La parte iniziale di questa nuova versione, dove racconti l’astinenza da morfina dell’artista, segue il tuo «nuovo» stile, nervoso e graffiato, già sperimentato in Pinocchio, creando un forte contrasto con la parte centrale molto pop. Una scelta funzionale alla materia esasperata dell’astinenza?
In Colombia sono stato ricoverato d’urgenza per dei calcoli renali. Vomitavo e soffrivo come un cane ma i medici non riuscivano a localizzare quei maledetti calcoli. La morfina non mi faceva niente e i miei ricordi di quel periodo sono annebbiati dal dolore. Finalmente vengo operato e dopo una settimana dimesso.  Sono così debole che cammino appoggiandomi a Giovanna e a metà strada entro in un ristorante sushi. Il miglior sushi del mondo.   
Il segno nervoso che continuamente mi sfugge di mano e il tentativo di domarlo si avvicina alla mia idea di dolore che volevo trasmettere su carta.
Nella nuova Frida le ultime tavole contengono ognuna una grande illustrazione ispirata all’arte precolombiana, che in qualche caso strizza l’occhio alla vicenda di Frida, come è evidente nel Diego-rospo. Sono raccolte alla fine del libro, prima del bel dettaglio del volto dell’artista e rimangono come sospese, tanto che mi han fatto pensare alla natura trascendente del legame tra Diego e Frida. Ci potresti chiarire da dove vengono queste immagini e perché hai scelto di collocarle alla fine del libro?
Esiste una collezione di questi oggetti appartenuta a Diego e Frida conservata nella loro casa-museo a Coyoacán. La storia si conclude con il dottore di Frida che arriva troppo tardi per alleviare il suo dolore, lei è già morta, la sua casa è diventata un museo. Oggetti in terracotta di uso comune prodotti da artigiani anonimi che ancora oggi riverberano per originalità e bellezza.
C’è tanta letteratura-sempre- nei tuoi lavori. Dalle citazioni dantesche di «La seconda volta» che ho visto Roma al «Mercoledì delle ceneri» di T. S.Eliot, proprio in questa nuova parte di Frida. Hai scelto questa poesia per il suo incipit «perché io non spero più di ritornare»? è Frida o Marco che parla in questo verso?  
I fumetti e i libri sono stati i miei amici più intimi e ancora adesso mi fanno compagnia. Eliot l’ho usato per rallentare il ritmo di lettura seguendo il consiglio di mister Orange, e la scelta di usare quella particolare poesia, che così bene lega con lo stato d’animo di Frida è puramente casuale, nel senso che quel libro l’ho trovato per strada anni fa e qualcuno aveva segnato proprio quella poesia con una foto, o forse ce l’aveva infilata per caso, non mi è dato di sapere.
Nemmeno io voglio più ritornare, non vorrei abusare della fortuna che ho avuto.
La bellissima personale «Il canguro pugilatore», in mostra alla Pinacoteca Nazionale di Bologna fino al 18 dicembre, permette di apprezzare il tuo vario e ricco percorso autoriale dove è molto spesso  presente un’ispirazione a una «fonte» artistica- penso ovviamente a Carlo Lorenzini per il Pinocchio, al pittore Ligabue in «Bestiario Padano», e a Frida . Pur trattandosi di ispirazioni e libri molto diversi, si percepisce il dialogo che instauri con questi autori, come se il fine non fosse solo quello di ri-mostrarli o rappresentarli, ma anche quello del tutto personale di scoprirne nuovi aspetti. Un dialogo del tutto personale, ma non per questo, meno riuscito. Cosa ne pensi e qual è il tuo rapporto con queste «fonti»?
Se la mostra è venuta bene metà del merito è dei curatori Alessio Trabacchini ed Emilio Varrà e delle preziose maestranze che lavorano nell’ombra. Da una fonte ci si abbevera, ci si rinfresca, si trae nuova forza per alimentare il proprio disegno, che nel mio specifico caso rischierebbe di assomigliare a se stesso, cioè a me stesso.  Forse manco di carattere e assomigliare allo stile di altri autori mi aiuta cambiare. Moltissime sono le mie ispirazioni, colte o ignoranti non importa. Che le senta mie, questo solo mi importa. Rubo per riempire questo vuoto che da sempre mi porto dentro.