Ufficialmente, regna la consegna del silenzio: nei palazzi del potere Ue nessuno fa dichiarazioni su un eventuale Brexit. Ufficiosamente, invece, la Commissione si prepara a ogni scenario possibile, come la Bce. Il presidente Mario Draghi ha ricordato che Bce e Fmi hanno fatto «numerose riunioni» e che la Banca centrale «è pronta a ogni eventualità», senza dare dettagli.

A Bruxelles il nervosismo è al massimo, anche se gli ultimi sondaggi hanno riaperto la possibilità di un voto a favore del Remain. Ieri Jean Claude Juncker ha lanciato l’ultimo avviso agli elettori d’oltre Manica. Un voto «per il fuori, significa fuori» ha messo in chiaro il presidente della Commissione europea, aggiungendo: «Voglio dire agli elettori britannici che non ci sarà nessun altro tipo di negoziato» perché «Cameron ha ottenuto il massimo di quello che poteva avere e noi abbiamo concesso il massimo che potevamo dare».

Le capitali europee

Angela Merkel ha fatto sapere di essere a favore del Remain, «ma la decisione spetta ai cittadini britannici». Il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, è stato invece più diretto, ha quasi lanciato un ultimatum: «O dentro o fuori», per scongiurare un’eventuale ambiguità di posizione e il tentativo di passare da «un piede dentro e uno fuori», situazione attuale di Londra, a «uno fuori e uno dentro» dopo l’eventuale Brexit.

Così François Hollande sollecita a non abbandonare la barca, mentre il ministro dell’Economia, Emanuel Macron, copia Schäuble, e ripete: «O dentro o fuori», citando espressamente la fine del «passaporto finanziario» delle banche britanniche. Il maggior timore nella capitali è che l’esempio britannico diventi dirompente – in entrambi i casi, out o in: un Brexit potrebbe scatenare una valanga di referendum, dall’Olanda alla Danimarca e alla Svezia, fino alla Francia (dove Marine Le Pen già promette una consultazione popolare se vincerà le elezioni), mentre l’est europeo dovrebbe rimanere fuori da questo movimento, vista l’importanza dei contributi Ue per le economie di questi paesi.

Anche la vittoria del Remain non è esente da guai per Bruxelles. In questo caso, verrebbe applicato l’accordo strappato da David Cameron il 19 febbraio scorso, in pratica un’adesione ancora più à la carte di Londra, che potrebbe innescare analoghe richieste da parte di molti stati – e questa volte con l’est in prima fila – un processo di sfilacciamento che «toglierebbe ogni credibilità al progetto europeo», teme il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker.

La Ue al rallentatore

Formalmente, la Ue ha continuato a funzionare, con tutte le riunioni previste a giugno (Ecofin, Affari esteri, Affari interni ecc.). Ma il sistema Ue è andato avanti a rilento. Molte decisioni che avrebbero potuto risultare sgradite a Londra sono state rinviate a più tardi, come la direttiva contro il riciclaggio di denaro sporco o grigio, prevista come risposta allo scandalo dei Panama Papers, che avrebbe sollevato il tema dell’opacità dei «trust», istituzioni del sistema britannico. Rimandata anche una decisione sulla Cina e la concessione dello statuto di economia di mercato, che avrebbe come conseguenza l’abolizione di misure anti-dumping da parte della Ue e nuovi vantaggi per Pechino (in Gran Bretagna, ci sono state conseguenze su British Steel dell’acciaio cinese a basso costo). Tutto rimandato anche sul fronte di una maggiore cooperazione nel campo della difesa, perché potrebbe venire interpretato a Londra come un mezzo per aggirare la centralità della Nato. Freno anche sul Ceta, l’accordo di libero-scambio Ue-Canada, la cui ratifica avrebbe dovuto iniziare negli stati membri verso metà giugno. Al contrario, la Corte europea di Lussemburgo si è affrettata ad approvare la richiesta britannica di non riconoscimento degli assegni sociali ai cittadini Ue disoccupati, se residenti in Gran Bretagna da meno di 5 anni.

L’articolo 50

L’appuntamento-chiave, dopo il 23, è per il Consiglio europeo del 28-29 giugno. Ma in caso di Brexit, già il 24 potrebbe venire convocata una riunione dei «quattro presidenti» (Commissione, Consiglio, Parlamento, presidenza semestrale). Tutti incrociano le dita e non si azzardano a fare previsioni. Se vincesse il leave, i partner si aspettano che in questa occasione David Cameron presenti la lettera di richiesta di divorzio dalla Ue, in nome dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona del 2009, che prevede una «clausola di ritiro volontario e unilaterale». Non ci sono precedenti. Anche se ci sono stati già degli exit nel passato: l’Algeria, per esempio, come parte della Francia, era di fatto nella Ue e con l’indipendenza del ’62 ottiene una deroga che mantiene lo statu quo fino al ’68 e poi diventa definitivamente stato terzo. La Groenlandia ha una storia diversa: diventata comunità autonoma dalla Danimarca nel ’79, con il referendum dell’82 decide l’uscita dalla Ue, con cui sottoscrive nell’85 un Trattato di associazione come paese d’oltre-mare ma gli abitanti conservano la qualità di cittadini dell’Unione. Saint-Barthélémy, nelle Antille francesi, si distacca dalla Guadalupa nel 2007 e non fa più parte della Ue dal 2012, ma i cittadini restano comunitari. Questi esempi illustrano le difficoltà e la confusione che regnerebbero in caso di Brexit, con molte possibilità aperte sul livello di relazioni che la Gran Bretagna e la Ue vorranno mantenere tra loro. Londra ha aggiunto confusione, quando il ministro della Giustizia, Michael Gove (favorevole alla Brexit) ha evocato la possibilità di evitare un ricorso all’articolo 50: un nuovo tentativo per sfumare la differenza tra «dentro» e «fuori» e, di conseguenza, minare la costruzione europea. «Una cosa scandalosa», ha commentato l’eurodeputata francese Sylvie Goulard, «ci vorrà una grande fermezza degli stati per non accettare che i britannici prendano in ostaggio» la Ue.

Divorzio laborioso

L’eventuale divorzio sarà comunque estremamente laborioso. Toccherà alla Commissione, su mandato dei 27, trattare i dettagli. Esistono migliaia di regolamenti e direttive, tradotte in leggi e in norme nei paesi membri, che la Gran Bretagna dovrà annullare e sostituire. La procedura, per l’articolo 50, può durare due anni, che possono essere raddoppiati, ma solo dopo un voto all’unanimità dei 27. Londra dovrà occuparsi di sostituire i finanziamenti della Pac (agricoltura) o quelli che vanno alla ricerca o gli aiuti alle regioni più povere. Il campo del Brexit ha raccontato molte contro-verità sul contributo britannico, che è stato gonfiato a scopi di propaganda. La Gran Bretagna, dai tempi di Margaret Thatcher, gode del rebate, cioè oggi di 4,9 miliardi di sterline l’anno che le vengono «restituiti» dagli altri paesi (1,5 miliardi dalla Francia, per esempio). La Gran Bretagna, certo, è un contribuente netto, molto dietro la Germania e al pari della Francia. Ma stare «fuori» non significa non dover contribuire al bilancio Ue. In particolare, se verrà negoziato un trattato di associazione, come esiste con Svizzera, Ucraina, Albania o Norvegia, per esempio. La Svizzera versa al bilancio Ue un contributo pari a 70 euro per cittadino elvetico. Oggi, il contributo britannico è di 130 euro a testa. Londra dovrà occuparsi di rinegoziare i trattati commerciali internazionali (Asia, America, Africa) oggi conclusi sotto l’egida Ue.

Finché il divorzio non sarà effettivo, però, tutto continuerà più o meno come prima nel funzionamento delle istituzioni. Nel senso che la Gran Bretagna continuerà a partecipare ai Consigli europei (salvo le riunioni che avranno come oggetto la Brexit), gli europarlamentari britannici resteranno al Parlamento europeo fino a fine mandato, il commissario Jonathan Hill non perderà il posto alla Commissione. E addirittura, la Gran Bretagna dovrebbe avere la presidenza semestrale, che le tocca nel secondo semestre 2017. Ma dovrà essere trovato un compromesso per i funzionari britannici nelle istituzioni Ue (che a questo punto saranno però pagati solo dai 27), mentre nel futuro non potranno più esserci candidature. Grande confusione sulla spartizione della proprietà comuni nell’edilizia comunitaria.

Una volta consumato il divorzio, la Gran Bretagna perderà l’accesso al mercato interno e le banche perderanno il «passaporto europeo» che permette di insediarsi ovunque nello spazio Ue, le cose che più interessano Londra.