Fin dal suo pionieristico saggio Futurismo e fotografia (Multhipla, 1979) Giovanni Lista ha indagato avvenimenti e figure delle arti visive del Ventennio. Lo ha fatto con scrupolo, come dimostra la mostra Fotografia Futurista alla Galleria Carla Sozzani di Milano (fino all’1 novembre). Un’esposizione che ci si aspetterebbe di trovare nella programmazione di uno dei tanti spazi espositivi pubblici di Milano per il valore delle opere raccolte, ma che invece si svolge in quello di una galleria privata che così ha voluto celebrare i suoi venticinque anni di vita e che per la fotografia ha fin dall’inizio dmostrato un impegno particolare, sempre con esposizioni di qualità come quella in corso. Diviso in quattro sezioni, il percorso espositivo illustra ciò che fu il contributo del Futurismo all’«immagine meccanica» codificata ne La fotografia futurista di Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) nel 1930, ossia i tre «modelli formali» che elenca il manifesto: il fotodinamismo dei Fratelli Bragaglia, «la mescolanza drammatica di oggetti mobili e immobili» e «la composizione organica dei diversi stati d’animo di una persona» (Boccioni). Ma si dà anche conto sia degli antefatti di inizio Novecento, che compongono l’humus dei temi poi confluiti nell’estetica fotografica dei futuristi, sia dello sperimentalismo che tra le due guerre saprà misurarsi con la fotografia delle avanguardie artistiche europee.
Si parte così da quel laboratorio del fantastico e del misterico rappresentato dal ritratto multiplo, dalla manipolazione per sovrapposizione del negativo e dalla riproduzione di immagini in movimento (cronofotografia) che con efficacia illustrano il desiderio di superare il dato sensibile della realtà per dirigersi verso tutto ciò che riguarda l’altro da sé: il vasto mondo che sta oltre il percettibile. Sulla scorta dell’innovazione della fotografia scientifica (Mach, Marey, Muybridge), fotografi come i Fratelli Alinari, Mario Nunes Vai, Carlo Maiorana e persino Boccioni, insieme a Tito D’Alessandri, si cimentano con la tecnica del multiritratto (ludico o a specchi) per quella «distruzione della mimesi» per la quale ogni scoperta è utile per vincere il realismo e la stasi della ritrattistica corrente. In questo ambito si inseriscono le immagini teatralizzate, come quella di Francesco Negri (Apparizione spiritica, 1895-1900), che narrano situazioni irreali e stravaganti. All’inizio, infatti, la fotografia, nei modi dati dal pittoricismo, non persuade i futuristi. Saranno Anton Giulio e Arturo Bragaglia, con il Fotodinamismo, a convincerli che la fotografia può invece essere, come il cinema, il nuovo medium adatto a esprimere i contenuti plastici della velocità e dell’azione. Boccioni lo intuì con il «dinamismo universale» composto di cinetismo (kinesis) e energia (dynamis), al quale i Fratelli Bragaglia saranno sempre riconoscenti. Le loro fotodinamiche dei primi anni dieci – quali Un inchino, Ritratto polifisiognomico di Umberto Boccioni o la serie delle immagini de Il pittore Francesco Trombadori – interpretano con esemplare effetto la teoria boccioniana. Queste rivelano «lo svolgersi dinamico e continuo del gesto – scrive Lista in catalogo – rispetto al movimento lineare, sequenziale e segmentato» delle cronofotografie. Causa il lungo tempo di posa, insieme alla lenta sensibilizzazione della lastra, il soggetto si presenta come avvolto in una «nuvola lattiginosa e rarefatta» che bene interpreta il movimento e l’energia vitale del Futurismo. Nell’autoritratto di Anton Giulio Bragaglia dal titolo Gustavo Bonaventura (1913) lo «sdoppiamento incosciente» della figura, prodotto della sovraimpressione, se irride il ritratto spiritico in voga all’inizio del secolo, cattura la realtà fenomenica cogliendone le sue «qualità trascendentali» (Fotodinamismo futurista, Roma, 1913) contenute nel movimento delle cose nello spazio. Già la filosofia di Bergson con le sue tesi sul movimento fornì al Futurismo più di un elemento di riflessione non solo per ciò che riguarda l’ immagine-movimento del cinema, ma anche per ciò che sono le immagini-istantanee della fotografia: le sezioni immobili, come le definì Deleuze. Se le prime sottostanno al «tempo impersonale, uniforme, astratto» (falso movimento) della macchina da presa, le seconde sono «pose» e «istanti privilegiati» che richiedono solo una sintesi. Ciò che si nota, scrisse Deleuze, è il termine finale o il punto culminante «da una forma a un’altra forma». In entrambi i casi siamo sempre nel campo della «riproduzione di un’illusione» (Bergson).
L’unicità del reale sta solo nel documentare vernissage, fatti di cronaca o ritratti. I ritratti sono quelli in studio di Carrà, Marinetti, o dei due insieme a Papini, Boccioni e Palazzeschi, eseguiti da Mario Nunes Vas: tradizionali nella composizione e nella posa dei soggetti. È «un gruppo d’avanguardia che mostra e ribadisce le proprie radici e la propria appartenenza borghese». Diverso il caso degli autoritratti di Depero (Con pugno, Con Riso cinico o Con smorfia (1915)) o delle foto dove l’artista roveretano inscena divertito gesti grotteschi e teatrali, come ad esempio in Mimica! insieme a Clavel che con un imbuto in testa imita il soldatino di piombo. Dello stesso segno ironico sono le foto-performance in costume di Bruno Munari, mentre più elaborati i ritratti con fotomontaggi di Ivos Pacetti, Giulio Parisio e Tato con inserti di oggetti e macchine.
L’ultima sezione della mostra riguarda gli anni venti e trenta. Il Futurismo è ormai un movimento eterogeneo. Per molti dei suoi artisti è impossibile omologarsi alle scelte culturali del fascismo, e nonostante la passiva adesione di Marinetti, alcuni preferiranno soggiornare per un periodo all’estero come Russolo, Prampolini, Depero. Nel frattempo il confronto con le avanguardie d’oltralpe si fa serrato soprattutto dopo la mostra internazionale Film und Foto di Stoccarda nel 1929. Il fotocollaggio e il fotomontaggio sono adesso le pratiche più utilizzate e in mostra se ne elencano prove esemplari. Si va da Io+gatto di Wanda Wulz, la sovrapposizione perfetta di due immagini facciali dalle quali ne scaturisce una terza ambigua e «magnetica», al Ritratto guerriero letterario di Mario Carli di Tato (lo scrittore è unito in dissolvenza alle copertine dei suoi libri), fino a Fortunato Depero a New York di Mario Castagneri e a L’Incubo torinese di Piero Luigi Boccardi, dove le architetture riprese dal basso e in obliquo straniano figure e paesaggi.
Il laboratorio fotografico del Futurismo non ci consegna però solo volti e corpi umani, ma, come recita il manifesto futurista, anche «il dramma di oggetti umanizzati, pietrificati, cristallizzati o vegetalizzati mediante camuffamenti e luci speciali». Camuffamenti di oggetti sono quelli di Tato con utensili e materiali di uso domestico, ma «scene miniaturizzate» per essere fotografate sono anche quelle ideate con piccole sagome di carta da Italo Bertoglio o con figurine in legno da Giulio Parisio. Sono tutte immagini rientranti nel genere del «Teatrino», più in generale sono «composizioni d’oggetti» che possono essere astratte, come dei semplici solidi geometrici dal vago sapore metafisico (Bertoglio, Mario Bellusi), oppure riprodurre speciali riflessi e ombre (Piero Luigi Boccardi). Prima che la guerra cancelli ogni speranza la fotografia futurista passa dal «dinamismo universale» allo sperimentalismo dei molteplici «stati dell’animo» attraverso una molteplicità di invenzioni che la mostra illustra con perfezione e che ci fanno intendere, ce ne fosse stato bisogno, il valore di una ricerca a buon diritto inscrivibile tra le più originali della storia delle avanguardie novecentesche