James K. Galbraith, amico e «consigliere» dell’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis, riflette sul fallimento della politica riformista di Syriza e sulla lezione che questo rappresenta per la sinistra europea.

Come giudica l’accordo raggiunto tra Grecia e Ue?

Non è un accordo. È un brutale colpo di stato ottenuto con metodi mafiosi. Lo stesso Tsipras ha ammesso che ha firmato solo perché si è trovato con un coltello alla gola.

Che alternative aveva il governo greco?

Dentro l’eurozona, nessuna. L’unica alternativa era l’uscita dall’euro.

Tsipras ha difeso la sua decisione sostenendo che un’uscita unilaterale dall’eurozona avrebbe avuto conseguenze ancora più serie sul paese.

È una decisione che spetta a lui, e capisco perché possa pensarla così. Ma ritengo che sia male informato.

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Quindi lei ritiene che a questo punto un’uscita dall’euro sarebbe la scelta migliore per la Grecia?

È ovvio che un’uscita avrebbe dei costi significativi. Ma se fossi un membro del parlamento greco sarei al fianco di Varoufakis e voterei anch’io «no» a questo accordo.

In quanto consigliere ed amico stretto di Varoufakis lei ha seguito i negoziati molto da vicino. Ritiene che una strategia diversa da parte della Grecia avrebbe potuto determinare un esito migliore?

A un certo punto nel corso dei negoziati è diventato evidente che la troika non aveva nessuna intenzione di trattare e non avrebbe accettato niente all’infuori di una riproposizione del vecchio Memorandum. La Grecia ha senz’altro sottovalutato con chi aveva a che fare. Prendiamo Schäuble: subito dopo la vittoria di Syriza dichiarò che «le elezioni non fanno alcuna differenza». Molti al tempo pensavano che scherzasse. E invece ha mantenuto quella linea fino alla fine. In quelle condizioni, l’unica cosa che poteva fare la Grecia era costringere l’avversario a venire allo scoperto, smascherandolo. E ci è riuscita.

Lei è stato molto critico nei confronti del comportamento tenuto dalla Bce.

Certamente. La scelta della Bce di assumere il ruolo di “scagnozzo” dei creditori – sottoponendo la Grecia a una lenta asfissia finanziaria che ha destabilizzato l’economia e messo in ginocchio il sistema bancario – è stato un atto di brutalità inaudita, senza precedenti, che solleva moltissimi dubbi sull’integrità di quell’istituzione. La pressione esercitata dalla Bce è il motivo principale per cui Tsipras è stato costretto ad accettare le condizioni imposte dalla troika.

Ritiene che il governo greco sia stato ingenuo nel cercare fino alla fine di giungere a un «compromesso onorevole», quando evidentemente la controparte non aveva nessuna intenzione di scendere a compromessi, al punto di arrivare addirittura a minacciare il Grexit?

No, non credo. Il governo greco ha fatto l’unica cosa che poteva fare, visto che non aveva altre carte da giocarsi: presentare le proprie argomentazioni nella maniera più chiara e logica possibile, sperando che la ragione e il buon senso avessero qualche effetto sulla controparte. Penso che questa strategia abbia avuto un impatto enorme sull’opinione pubblica europea. Purtroppo non ha influito minimamente sui rapporti di forza in seno all’Europa. Non è stata una strategia ingenua: è stata una strategia dettata dallo squilibrio di forze in campo.

Ritiene che la Grecia avrebbe dovuto giocarsi la carta del «Grexit» fin dal principio?

Non è detto che questo avrebbe rafforzato la posizione negoziale di Syriza. Primo, avrebbe voluto tradire il mandato elettorale di Syriza. Secondo, bisogna tenere presente che era chiaro fin dall’inizio che una parte dell’establishment tedesco vedeva di buon occhio il Grexit. Dunque non c’è motivo di ritenere che minacciare esplicitamente l’uscita avrebbe migliorato la posizione di Syriza o costretto gli europei a più miti consigli.
Il punto è che quello di Syriza è stato un test: vedere se una strategia basata su argomentazioni logiche, sulla ragione e sui fatti – tesa a dimostrare l’evidente fallimento delle politiche economiche perseguite finora – poteva prevalere all’interno dell’eurozona, alla luce delle posizioni politiche ed ideologiche degli altri partner. Questo è quello che ha cercato di fare Tsipras, con le uniche armi a sua disposizione: il buon senso e la ragione. Ma quelle armi non hanno avuto effetto. Questo deve indurci a fare una riflessione molto profonda su quello che è diventata l’Europa.

Quale pensa che sia la lezione che gli altri movimenti e partiti della sinistra in Europa dovrebbero trarre dalla vicenda di Syriza?

Tutta la strategia di Syriza era basata su un’incognita: può un paese che ha pagato sulla propria pelle il drammatico fallimento delle politiche europee sperare di cambiare quelle politiche all’interno della cornice dell’eurozona? Bene, penso che la risposta a quella domanda sia evidente a tutti.

Non ritiene che una strategia improntata alla riforma dell’Ue e dell’eurozona avrebbe qualche speranza di successo in più se a portarla avanti fosse un partito politico alla guida di un paese economicamente e politicamente più rilevante come, per esempio, la Spagna?

Sta all’elettorato spagnolo decidere se tentare la strada greca o meno. Al loro posto, io non sceglierei quella strada. Non penso che sarebbe una posizione facile da vendere agli elettori, alla luce della vicenda greca. Anche perché ormai la posizione dei creditori la conosciamo bene, ed è incredibilmente rigida: niente taglio del debito e nessuna deviazione dalle politiche di austerità estrema che abbiamo visto finora.

Come reagirebbe l’establishment europeo alla vittoria di un partito come Syriza in un altro paese della periferia, secondo lei?

Assisteremmo alla stessa semi-automatica sequenza di eventi a cui abbiamo assistito in Grecia: per prima cosa le banche del Nord comincerebbero a tagliare le linee di credito alle banche del Sud. A quel punto dovrebbe intervenire la Bce con la liquidità di emergenza. Questo spingerebbe la gente a portare i capitali fuori dal paese, e in poco tempo il governo si ritroverebbe a gestire una crisi bancaria. Va da sé che se questo avvenisse in un paese come la Spagna o l’Italia, avrebbe ripercussioni infinitamente più gravi di quello a cui abbiamo assistito in Grecia.

Qualunque partito di sinistra che aspiri a governare un paese europeo deve essere preparato a questo.