La flessibilità del rigore produce confusione nel governo. Il sottosegretario Del Rio ha rilanciato gli Union bond, un fondo federale al quale gli stati conferiscono pezzi del loro patrimonio immobiliare usato come garanzia per investimenti strutturali e per diminuire il debito, mentre per il ministro dell’Economia Padoan «la questione non è all’ordine del giorno». Con il sociologo Luciano Gallino, già autore del più affilato libro contro l’austerità, Il colpo di Stato di banche e governi (Einaudi), proviamo a esplorare le ragioni di questo conflitto. «La proposta di Del Rio viene da quella Prodi-Quadrio Curzio di qualche anno fa – afferma Gallino -In questo momento equivale a dare al vicino le chiave di casa e la password del proprio conto in banca, lasciando intendere di fare quello che vuole. La mutualizzazione del debito così intesa significa cedere la sovranità economica ad elementi incontrollabili».

Il ministro Padoan sostiene che per la crescita e la sostenibilità del debito non bisogna cambiare le regole e applicare la flessibilità promessa da Renzi. È realistico?

Il realismo è fatto di numeri, regole, definizioni. Finché si parla genericamente di flessibilità, chiunque può intenderla come vuole. La politica economica fino ad oggi adombrata dal governo instilla ulteriori dosi della medicina dell’austerità basata sull’accrescimento dell’avanzo primario, la riduzione delle spese statali che hanno scavato un buco enorme tra il prelievo fiscale dello stato e quello che lo stato restituisce ai cittadini in beni e servizi. Qualcuno del governo ha detto che occorre ridurre ancora il peso dello stato sull’economia. Data la situazione in cui ci troviamo è l’annuncio di un suicidio.

Ieri a Strasburgo Renzi ha detto di non volere cambiare le regole dell’austerità, ma che serve una crescita che purtroppo non ci sarà. C’è qualcosa che non torna. Sta forse nascondendo la reale situazione dell’economia?

Direi proprio di si. In parte non se ne rende conto, in parte è d’accordo perchè la mentalità del suo governo è simile a quella dei governi precedenti che hanno sposato il credo neoliberale. Le idee per uscire dal guado non ci sono e continuano ad insistere sulle solite politiche: sgravi fiscali per le imprese, qualche euro per i consumi, leggine per modificare il mercato del lavoro. Così nel 2100 saremo allo stesso punto, ma in una situazione certamente peggiore. Occorre qualche grosso progetto, a livello europeo, per un robusto rilancio degli investimenti connessi all’occupazione. Invece gli interventi a pioggia in cui questo governo è specializzato, come i precedenti, non hanno alcuna effetto sulla crescita. Pensare che un’azienda non assuma personale perchè gli costa qualche punto di percentuale in più è una pia illusione. In Italia non si assume perchè non si ha idea di quale prodotto vendere domani.

Non si parla mai di fiscal compact che imporrà dal 2016 tagli al debito pubblico per 50 miliardi all’anno per vent’anni. Secondo lei perché?

Le pressioni di Bruxelles, della Bce e della Germania per applicarlo alla lettera sono tali che non si vede come non si possa applicarlo. Stiamo parlando di decine di miliardi per abbattere il debito pubblico ma che graveranno sull’avanzo primario. Seguendo una tendenza ventennale, nel 2013 lo stato italiano ha prelevato dai cittadini una somma superiore ai 500 miliardi, restituendo in termini di acquisto di beni, servizi e stipendi poco più di 430 miliardi. Questo non basta per far fronte il fiscal compact e si punta a dilatare il divario tra il prelievo fiscale e quello che lo stato restituisce ai cittadini. Per questo l’idea dello stato minimo è folle: i media e i governi hanno imposto l’idea che quella statale è solo una spesa passiva, mentre invece corrisponde agli stipndi degli insegnanti, dei medici, per i servizi pubblici. Se uno taglia 50 miliardi in nome dell’avanzo primario, il risultato è un salasso dell’economia reale. Con la conseguenza di abbattere la domanda, aumentare la disoccupazione e la deflazione.

Oggi parte la raccolta firme per il referendum no fiscal compact. Cosa ne pensa?

È molto positivo. Non tanto perchè pensi che ne usciranno delle soluzioni immediate. L’insieme di forze e poteri che si oppongono al cambiamento delle politiche fiscali e monetarie sono tali da non sperarci. Ma è importante che un buon numero di cittadini si renda conto dei problemi in cui siamo, oscurati dal silenzio dei media.

C’è chi invece propone un’iniziativa legislativa popolare sullo stesso tema che potrebbe affiancarsi al referendum. È una strada percorribile?

Più se ne parla, meglio è. La proposta fatta da Gaetano Azzariti su «Il manifesto» si riferisce all’iniziativa dei cittadini europei (Ice) introdotta dall’articolo 10 del Trattato di Lisbona e in vigore dall’aprile 2012. Questo tipo di iniziativa prevede che i cittadini possano prendere posizione su questo o su quel tema. Ben venga dunque anche il ricorso a questo tipo di strumenti che hanno il vantaggio di stare nei trattati. Si tratta di chiedere qualcosa alla Commissione ciò che si è guardata bene dal fare: la partecipazione. Così facendo è riuscita a tenere nascoste le conseguenze dei vari trattati. Come si vede dalle trattative segrete sul trattato Usa-Ue sul libero commercio (Ttip), uno degli aspetti inqualificabili della comissione a guida Barroso è non avere informato i cittadini sulle sue conseguenze. Da mesi sono in corso trattative e negoziati che mettono a rischio i servizi, l’agricoltura, la proprietà intellettuale, i diritti del lavoro e molto altro. E nessuno sa nulla. È una situazione inaudita. Oggi bisogna dare voce ai cittadini, senza però illudersi sui risultati a breve termine.