Completamente isolato sul piano internazionale, Yahya Jammeh non solo resiste ma rilancia, decretando 90 giorni di stato d’emergenza alla vigilia di quello che sarebbe dovuto essere il passaggio dei poteri nelle mani del suo successore alla guida del Gambia. Una decisione che ha spazzato via le ultime incertezze, se mai ve ne fossero state ancora, sul modo in cui Jammeh, che regna sul piccolo stato africano con il pugno di ferro dal 1994, intende attendere l’esito del ricorso presentato alla Corte suprema (il caso verrà esaminato non prima di maggio) all’«indopodomani» del voto dello scorso 1 dicembre.

Dapprima infatti Jammeh aveva accettato con fairplay per certi versi sbalorditivo la vittoria del suo sfidante, l’immobiliarista neofita della politica Adama Barrow, sostenuto da una coalizione di sette partiti. Poi era bastato che la Commissione elettorale parlasse di irregolarità in alcuni seggi, e hai voglia ad aggiungere, a precisare che non erano comunque tali da poter influenzare il risultato finale: Jammeh aveva già innestato la retromarcia, travolgendo ogni cosa.

Per tentare di farlo ragionare, a Banjul nelle ultime settimane sono sfilati capi di stato, esponenti degli organismi regionali e continentali. Unione africana, Onu e praticamente tutte le diplomazie del mondo hanno inutilmente implorato Jammeh di farsi da parte. Allo stesso scopo, seppur con fare meno discorsivo, un’unità navale della marina nigeriana dovrebbe piazzarsi da oggi davanti alle coste del Gambia.

Adama Barrow intanto per sua «sicurezza» si trovava in Senegal su consiglio dell’Ecowas. Non ha potuto neanche partecipare ai funerali del figlio di 8 anni, sbranato da un cane nei giorni scorsi. Migliaia di persone si sarebbero già rifugiate nei paesi confinanti, Senegal e Guinea Bissau, per timore che la situazione precipiti.