Ieri pomeriggio le parole del procuratore del Cairo Cherif Abd El Monim hanno sgonfiato le voci che circolavano intorno al caso di Giulio Regeni: le indagini lampo, ha detto, hanno chiarito che i cinque criminali uccisi nella capitale non erano legati alla sparizione, le torture e la morte del giovane ricercatore italiano.

Tutto era partito con le dichiarazioni rilasciate da un anonimo funzionario della sicurezza egiziana al quotidiano al-Watan: la polizia, in uno scontro a fuoco nella capitale, ha ucciso i membri di una gang specializzata nel rapimento di cittadini stranieri e responsabile della morte di Giulio. Secondo le autorità locali i criminali, provenienti dal governatorato di Sharqiyya, a nord della capitale, erano soliti travestirsi da poliziotti. Su questo elemento si sarebbe basata la soffiata della fonte.

Una prima smentita era giunta poche ore dopo: il quotidiano filo-governativo al-Ahram, citando altre fonti, negava il collegamento tra il caso Regeni e la banda in questione. Nel frattempo il Ministero degli Interni pubblicava un comunicato nel quale si limitava a riportare dell’eliminazione di «una gang di criminali che si travestivano da poliziotti, specializzati nel rapimento e la rapina di stranieri». Nessun riferimento al ricercatore italiano.

Poi, l’intervento del procuratore del Cairo ha messo a tacere le voci che avevano creato non poco scompiglio nei media italiani: un giorno dopo la conferma di Magdi Abdel Ghaffar a ministro dell’Interno (chiaro messaggio di sostegno alle forze di polizia e ai servizi segreti egiziani da parte del presidente al-Sisi), sembrava che l’Egitto tentasse di nuovo di rifilare all’Italia la storia della banda criminale per chiudere il caso Regeni.

Così non è. Ma che Il Cairo abbia o meno provato a rigiocarsi la carta della criminalità, resta l’assenza assordante dell’«inchiesta trasparente» che al-Sisi aveva promesso. La risposta più onesta Il Cairo l’ha data proprio giovedì quando dal rimpasto di governo ha salvato l’uomo simbolo del fumo intorno all’uccisione di Giulio.

Di certo quella conferma è un messaggio ai tanti che in Egitto alzano la voce contro i metodi repressivi del governo. Il clima da caccia alle streghe avvolge tutto e viene colpevolmente riprodotto da ogni strumento nelle mani del presidente, dalla magistratura alla polizia, dal parlamento alla stampa.

Non è un caso che una decina di giorni fa la reazione dei media filo-governativi e di buona parte dei parlamentari alla risoluzione Ue che condannava l’assassinio di Giulio sia stata quella di accusare di corruzione la Fratellanza Musulmana. Ormai rientrati nella lista delle organizzazione terroristiche, come successo più volte nella loro storia, ai Fratelli Musulmani è stato imputato di aver corrotto membri del parlamento europeo perché votassero una risoluzione che condannava «un caso che non è isolato, ma che si è verificato in un contesto di torture, morte in prigione e sparizioni forzate».

Subito si è scatenata la macchina della propaganda: i giorni seguenti giornalisti, commentatori tv, analisti sono accorsi in televisione per dimostrare l’esistenza di una cospirazione tra europei e islamisti volta a isolare l’Egitto. E c’è chi, come il noto presentatore di talk show, è arrivato a dire che l’ambasciata italiana sta volutamente nascondendo prove che dimostrerebbero che Regeni è stato ucciso per una disputa personale.

Il sistema funziona come un novello Grande Fratello. Poche le voci critiche che non siano state già isolate o punite. Da fuori sono le organizzazioni per i diritti umani ad alzare la voce: mercoledì Amnesty International, Human Rights Watch e altre 12 associazioni, insieme all’Alto Commissario Onu ai Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein, hanno fatto appello al Cairo perché interrompa la politica repressiva nei confronti di attivisti e organizzazioni per i diritti umani, fatta di arresti, detenzioni, divieti di lasciare il paese, congelamento dei beni personali e familiari.

«La società civile egiziana viene trattata come un nemico dello Stato, invece che come un partner per la riforma e il progresso», il commento di Said Boumedouha, vice direttore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.