Un volume frutto di ricerche trentennali, che ripercorre le imprese e gli ultimi anni della vita di Gaudenzio Ferrari: in Gaudenzio a Milano (Officina Libraria, pp. 180,euro 19,90) Rossana Sacchi raccoglie quattro saggi già pubblicati – sparsi fino ad ora nelle gore in cui si muovono quasi solamente gli storici dell’arte – e due inediti.
Il grande pittore valsesiano frequenta Milano fin dagli anni della propria formazione, ma vi si trasferisce definitivamente solo nella seconda metà degli anni trenta del Cinquecento, dopo la morte di Francesco II Sforza. È un momento di passaggio politico e culturale: la città lombarda, senza più duchi legittimi, entra nell’orbita imperiale e da Carlo V è ceduta al figlio Filippo II, re di Spagna. Negli anni precedenti Gaudenzio ha gradualmente intensificato i contatti con l’ambiente milanese: a Vigevano, poi a Saronno per giungere infine, almeno dal 1537, a Milano, dove lavora per la Fabbrica del Duomo. «In una società in cui, a strati, tutti conoscevano tutti», è attratto da una rete di relazioni ricostruita dettagliatamente nei capitoli del volume, in uno scenario umano fatto di notabili, prelati e militari appartenenti all’ambiente ducale, poi filoimperiale e filospagnolo; i committenti hanno uno spazio importante, tra intrecci privati e pubblici affari, consuetudini, famiglia, politica e religione. L’indagine si muove infatti dall’archivio, spaziando poi tra materiali eterogenei senza mai perdere di vista le opere, nemmeno nelle fitte trame che coinvolgono l’Ultima Cena di Santa Maria della Passione.
A Milano Gaudenzio affitta un’abitazione nei pressi di San Nazzaro, una zona che non lascerà mai più, e vende, nel 1539, la propria casa di Varallo. Fino a poco prima della morte, avvenuta il 31 gennaio 1546, continua a raccogliere tutte le occasioni lavorative possibili da concertare con la bottega: allievi, soci, garzoni, che non saranno mai all’altezza del maestro e di cui si cominciano a mettere a fuoco solo ora le personalità grazie anche a ricerche sviluppate in parallelo, condivise con gli studenti e altri insegnanti della Statale di Milano, dove l’autrice insegna.
Gaudenzio a Milano è quindi la storia di un artista grandissimo che si trova ad affrontare un tramonto di carriera solitario, vissuto in un laboratorio affollato dove nel viavai di collaboratori, falegnami e apprendisti, nessuno sa dominare la pittura con la stessa autorevolezza, con altrettanta poesia. Nessuno segue il vecchio maestro tanto attento nell’allestire le pose, gli sguardi, gli abbracci, le bocche socchiuse, in scene sacre dalla corale, ottimistica fierezza, mentre la città è travolta da una «montante marea manierista» che ne sta cambiando i connotati. Anni che per Gaudenzio avrebbero potuto essere di personale trionfo, «appaiono invece di sconfitta nobilmente affrontata» (sono parole, tante volte citate e intensamente significative per gli studi successivi, di Gianni Romano). Gaudenzio affanna quindi dietro agli stranieri che lavorano o mandano opere in città, più giovani o più aggiornati o ancora più grandi – Michiel Coxcie, Moretto, Giulio Romano, Giovanni Demio, Tiziano, Paris Bordon –, eppure «manifesta il travaglio suo e dei tempi in cui vive con diretta e commovente immediatezza», nella Milano del d’Avalos che si va spagnolizzando almeno nei costumi e nei gusti, «dove dominano il culto dell’individuo, le spinte esibizionistiche e vere incertezze». Cerca così delle strade percorribili, come nel Martirio di Santa Caterina dipinto per Sant’Angelo, ora in restauro a Brera, dove l’episodio sacro è un pezzo di teatro, ma senza l’afflato coinvolgente e sensibilmente umano delle messe in scena al Sacro Monte di Varallo. Eppure la pala risponde, pragmaticamente, alle attese dei committenti. L’attenzione per i dettagli sfarzosi dell’abbigliamento e delle armi, l’esibita sensualità perlacea della santa e i monumentali e nerboruti aguzzini nascono infatti da richieste più o meno esplicite della committenza, interessata a mostrare un prestigio sociale, in molti casi recentemente conseguito (o ri-conseguito), attraverso l’esibizione di opere alla moda in cui risultano evidenti rimandi a fatti figurativi di richiamo – Giampietrino, i giganti di Giulio, i muscoli di Michelangelo, il colore di Tiziano… Il vecchio maestro ha fatto ciò che ha potuto e il risultato finale è una pala sgargiante come una vetrata dove la tipica grana umana gaudenziana è rivestita dall’effimera superficialità che riempie gli occhi dei nuovi potenti.
Tra questi nuovi signori di Milano ci sono anche i Trivulzio. Cacciati come traditori a inizio secolo, poi reintegrati nei gangli amministrativi dello Stato, fanno della loro cappella in Santa Maria della Pace una delle tessere per la ricostruzione della propria immagine pubblica. Un re-branding che li spinge a chiamare un pittore legato tanto alla tradizione quanto ai nuovi poteri: con la loro carica poetica, gli affreschi della cappella Trivulzio – dopo lo strappo del 1808 conservati a Brera, a pochi metri dalla pala che incorniciavano, comprata dallo Stato pochi anni fa – danno forma alle fantasie letterarie e archeologiche dei committenti in un presente minato da preoccupazioni. Come se Gaudenzio avesse riposato gli occhi su Bramantino e sui propri modelli del passato riprovando, per qualche momento almeno, in questi anni estremi e con quest’ultimo capolavoro, l’emozione della giovinezza.
Nelle pagine finali del libro la studiosa rifà il punto, aggiungendo notizie recenti e novità che hanno trovato origine e sviluppo in attività seguite da vicino o curate con attenzione, tra seminari universitari, tesi discusse o ancora in corso e mostre come Luini e i suoi figli (a Palazzo Reale due anni fa). Poi si arriva a un vero e proprio epilogo: a due settimane dalla morte del pittore il suo allievo, poi socio, Giovanni Battista Della Cerva, si trova con la vedova di fronte a un notaio per comporre una controversia che doveva averli contrapposti anche intorno al moribondo allettato: si deve stabilire la proprietà e la successiva gestione dei disegni e dei dipinti rimasti incompiuti. Tra le opere incomplete c’è il «Cenacolo bellissimo» (Vasari 1550) della Passione, ma il vero nodo sono i «designamenta». Dalle invenzioni del maestro dipende infatti il destino artistico del mediocre Della Cerva, e non solo.
Quindi a metà secolo i gaudenziani milanesi possono sopravvivere seguendo due strade, o isolandosi in provincia o ibridando il proprio linguaggio alla parlata concettosa e stravagante della Milano spagnola, mentre «la vera portata dell’insegnamento del valsesiano cova sotto la cenere in attesa di riesplodere al tramonto del secolo, facendo presa su una generazione di artisti ben più motivati e vitali del povero Della Cerva».
È un’età di cerniera che difficilmente si può ridurre con semplificazioni da «eredità leonardesca», come si è fatto spesso in passato, e su cui pesano tanto le influenze esterne quanto i legami, a volte sotterranei, che coinvolgono pittori modesti, ricamatori, commercianti di libri… e una classe dirigente che cerca una nuova identità. Il senso di un libro come questo sta soprattutto qui, cioè nel tentare di sviscerare, per quanto possibile, i nessi storici complessi che stanno dietro le scelte, i cambiamenti di gusto e le passioni di persone reali, fino a coglierne con senso di immediatezza i problemi e le connessioni con il presente.
Gli sforzi profusi nello studio non sono mossi da un’arida ricerca delle novità o del sensazionale, così che spesso il monte ore speso in archivio ha dato esiti inferiori alle aspettative dell’autrice, ma le ha permesso – riprendo dal densissimo e personale primo capitolo – di continuare ad «allineare domande poco frequentate ricavandone temporaneo sollievo»: sono la propria inquietudine, le passioni, le curiosità, a spingere e sostenere, finché l’assalto si placa e il bottino è mostrato nelle aule universitarie illuminate dai proiettori o ordinatamente raccolto sulle pagine di un libro importante come questo.