Milioni di persone sono rimasti incantati vedendo su You Tube il filmato di due neonati gemelli che si abbracciano mentre l’infermiera francese Sonia Rochel fa loro il bagno. A guardare bene il filmato la scena richiama in realtà sentimenti d’angoscia: l’abbraccio è un falso sapientemente costruito dall’infermiera che manipola i due piccoli corpi in modo da tenerli legati perfino quando terminato il bagno li avvolge in un asciugamano bianco, con un gesto finale che tradisce la costrizione di fondo (e fa apparire per un attimo il panno come sudario).
È nota la tendenza a enfatizzare la somiglianza dei gemelli (vestendoli, per esempio, in modo uguale) per esaltare l’importanza di un legame evidente di sangue. Questo atteggiamento potrebbe apparire incongruo visto il carattere perturbante del sosia che attiva la paura di confondersi con l’altro, perdendo la propria distinta identità. Sennonché l’accentuazione della gemellarità ha un significato apotropaico: esorcizza l’effetto perturbante del doppio, normalizzando il fantasma dell’indifferenziazione che lo determina. In fondo si tratta di una questione di giusta distanza tra sé e l’altro, di equilibrio tra il legame fondato sull’identificazione e la relazione costruita a partire dalle differenze.
L’effetto perturbante, che testimonia il radicamento in noi del bisogno della differenza, difende quella lontananza dell’oggetto desiderato che tiene vivo il desiderio e lo rende lungimirante.
L’investimento della gemellarità, il nostro aggrapparsi alle somiglianze, porta al consolidamento della consuetudine e al trionfo del già visto e del già vissuto che separa l’estraneo dal familiare e rende la presenza dell’altro omogeneizzante, consolatoria. Ma ogni cosa puramente consolatoria è falsa: ci protegge dalla verità della vita (che è indissociabile dal conflitto) e alimenta l’inerzia psichica (l’unica vera malattia dell’anima). Le mani dell’infermiera che spingono i due gemelli verso l’abbraccio creano un consenso che non è rivolto in realtà al gesto forzato dei fratelli ma allo sguardo degli stessi spettatori consenzienti che vogliono vedere solo ciò che li consola, che per definizione non esiste realmente ma è un’invenzione. Va in scena una concezione della fraternità depurata dal dissenso e dalle divergenze, tutta piegata sull’uniformazione dei pensieri e dei vissuti e sull’illusione di solidità e di sicurezza che crea l’assenza di movimento. Nel filmato i due gemelli soffrono l’utero artificiale in cui sono di nuovo rinchiusi per esigenze, è il caso di dire, «sceniche». Il loro corpi, le loro braccia si incontrano, si contrastano si evitano, si scontrano. Non sembrano tanto interessati l’uno all’altro ma alla conquista di spazio, alla definizione del loro movimento vitale. L’idea dell’altro da sé è di là da venire (passerà prima attraverso la madre e solo il legame di lei con il padre la renderà realmente vivibile) e quando finalmente nasce l’amore fraterno esso non ha senso senza l’odio. L’abbraccio contiene l’odio della lotta: è la forza propulsiva dello scontro che facilita l’incontro che lo rende consistente, solido. Si dice che si odia solo chi si ama (o che si potrebbe amare) ma sarebbe più preciso dire che si ama solo chi si odia (o che si potrebbe odiare).
La dissociazione dell’odio dall’amore affligge in modo evidente la nostra civiltà e non c’è modo peggiore di affrontarla che avvolgerla d’amore immaginario. C’è molta violenza nel nostro sguardo se quando non trova l’amore lo inventa e la perdita della capacità di sentirsi perturbati ci impedisce di comprenderlo.