Scuola Diaz, caserma di Bolzaneto: nomi che spiccano nelle pagine più nere della recente storia italiana. Basta una sigla, G8, a ricordarci come fu celebrato in Italia il primo anno del nuovo millennio: l’evento, il grandioso teatro del potere preparato a Genova per accogliere gli «Otto grandi» e celebrare così le magnifiche sorti di un’Italia entrata nel club, fu un giorno di battaglia: ci fu un morto, il giovane Carlo Giuliani ucciso da un carabiniere. La sera, mentre nella città si alzavano ancora nuvole di lacrimogeni e della festa dei potenti restava una scena di squallore e di devastazione, si scatenò la vendetta notturna delle forze cosiddette di sicurezza. Quello che avvenne fu definito «macelleria messicana».

Non il Messico, altri luoghi e altre macellerie erano nelle menti degli agenti di polizia e dei carabinieri. Quando i fermati scesero dai cellulari all’ingresso della caserma, dalla fila degli agenti di polizia e dei carabinieri che li aspettavano si levò il grido: «Benvenuti ad Auschwitz». A partire da quel momento fu nei nomi di Hitler e di Mussolini che si scatenò una mattanza, una sistematica opera di sadismi, crudeltà, umiliazioni e torture per centinaia di persone inermi, esposte senza difesa alcuna alla violenza illimitata di quei corpi di «uomini dello Stato».

Alcuni di quegli uomini, condannati da sentenza di primo grado nel luglio 2008, fecero ricorso in appello. Il compito di riesaminare tutta la documentazione venne affidato a Roberto Settembre: di quella storia aveva dovuto occuparsi come giudice in una causa precedente nella quale erano stati accusati e condannati i membri del «Black Bloc», causa scatenante del disastro della giornata genovese del G8. Quello che poi gli venne affidato era un compito diverso: un compito simile a quello dello storico, come osserva in apertura del libro di riflessioni nato da quella esperienza, Gridavano e piangevano La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto (Einaudi, pp. 260, euro 18,00).

In appello si lavora su ciò che è scritto, non si ascoltano di nuovo testimonianze, non si vedono comparire accusatori e accusati. Davanti alla Corte ci sono solo i grossi faldoni con gli atti del processo di primo grado: molte migliaia di pagine che il giudice relatore deve scorrere per formarsi un libero convincimento in materia. Quel convincimento prese poi forma in una sentenza. Ma qui, nel libro che ha scritto, il giudice si è fatto storico. Ha pensato che questa vicenda dovesse essere conosciuta al pubblico dei lettori. È a loro che ha voluto sottoporre le convinzioni e le proposte che ne ha ricavato.

Si deve essere grati al giudice Roberto Settembre per questo libro: le sue pagine guidano il lettore lungo un percorso di ricerca mettendo a fuoco via via situazioni, persone e comportamenti, affrontando e risolvendo dubbi, cercando la verità dei fatti ma anche, alla fine, ponendosi il problema di come, perché, da quanto lontano si sia potuti arrivare a quegli esiti. Non si può che essere d’accordo con lui sul punto centrale: questa è una storia che deve essere conosciuta, deve essere meditata, perché c’è in essa, al di là delle vicende narrate, degli orrori di violenza e delle sofferenze umane delle vittime, un segnale importante per l’intero paese, un segnale che non è stato ancora colto nella sua gravità.

Per capirne la natura bisogna conoscere quel che avvenne, allora, dentro la caserma di Bolzaneto. Bisogna leggere le deposizioni, collocare volti e storie negli spazi di quella caserma, seguire quel che vi sperimentarono le vittime. L’autore sembra aver fatto proprio la strategia di ricostruzione interiore che Ignazio di Loyola definì come «composizione di luogo»: vedere la scena («ver el lugar»), ascoltare le voci, entrare mentalmente nelle situazioni.

Questo significa ad esempio immaginare di essere al posto dell’arrestato Alfredo B. mentre l’agente di polizia Gian Luca M. gli afferra con le due mani le dita della mano sinistra e le divarica con violenza lacerando la mano fino all’osso. Significa anche cogliere il valore di piccoli dettagli, come quello che affiora nella testimonianza dell’arrestato Alfio P.: il quale, mentre racconta che nell’infermeria della caserma il medico «non si è comportato come solitamente si comporta un medico», ricorda incidentalmente che lui, il paziente, forse ancora in manette, era nudo, disumanizzato.

L’insieme delle storie qui ricostruite alla fine fa emergere nella mente del giudice e in quella del lettore una convinzione «al di là di ogni ragionevole dubbio»: qui non si tratta degli eccessi di uomini trasformati in bestie assetate di sangue, inebriate dal piacere sadico dell’umiliazione e del dolore delle vittime. Quello che accadde allora a Bolzaneto – scrive Roberto Settembre – «va al di là di ogni singola storia». Siamo davanti alla costruzione deliberata di un universo concentrazionario. Poliziotti e carabinieri hanno in mente il modello dei campi di sterminio nazisti. Per loro gli arrestati sono tutti ebrei e comunisti. La sub-cultura dei torturatori si esprime nelle canzoni fasciste, nel costringere gli arrestati a gridare «Viva Mussolini» e a fare il saluto romano, nel considerare «troie» tutte le donne perché di sinistra, nel minacciarle di stupri, nel vessarle e terrorizzarle, nel far gravare su tutti la paura della morte.

C’è un mito di fondazione di quell’universo da incubo che si materializza nella caserma di Bolzaneto, un mito necessario e sempre pronto a rinascere quando si cerca legittimazione ideologica a un sistema di sopraffazione, di umiliazione spinta fino all’estremo degrado fisico e mentale delle vittime. Questo sistema, che si materializzò per ore e per giorni nello spazio concentrazionario di Bolzaneto, lo avevano predisposto e lo governarono uomini dello Stato. Gli atti processuali permettono di seguirne i passaggi: le foto mostrano i volti marchiati da croci tracciate a pennarello, i corpi contusi, le teste sanguinanti. Una violenza fredda e illimitata è scritta nel volto incerottato di Gudrun, nei punti sulla gengiva e sul labbro, nella sua mandibola fratturata con sette denti buttati giù. Da allora sono passati tanti anni, quei giovani torturati si sono ricostruiti una vita. Roberto Settembre racconta con quanta difficoltà abbiano ritrovato esistenze normali e come a lungo abbiano dovuto lottare col peso di incubi e terrori, con la perdita di fiducia nell’umanità tutta.

Rimane al lettore la domanda di quale incubo di odio e di violenza abitasse le menti di tutti dei torturatori. Di quegli uomini e donne, di quell’insieme di poliziotti, carabinieri, operatori sanitari abitualmente definiti «servizi di sicurezza» colpisce la definizione che vollero dare di se stessi. A Paul, una delle loro vittime, fu chiesto di rispondere alla domanda: «Chi è il tuo governo»; e la risposta che si fecero dare in coro fu: «Polizia è il governo».

Si è tentati di respingere nel passato la minaccia a cui dettero corpo allora quei poliziotti e quei carabinieri. Ma sarebbe sbagliato. Le tare antiche dello Stato italiano, fin dalle sue origini sospettoso e ostile nei confronti dei governati, la sub-cultura fascista che alligna nei luoghi di formazione dei corpi di sicurezza sono solo la parte affiorante in superficie. Il deposito del passato non è sufficiente a chi vuole capire il presente. Qualcuno – come qui si accenna – ha accostato il G8 genovese all’11 settembre americano: lo ha fatto il documentario The Summit di Massimo Lauria e Franco Fracassa proponendo la tesi di un complotto, di un coordinamento tra servizi stranieri e polizia italiana per dare un segnale definitivo ai contestatori dei summit internazionali.