I recenti sviluppi della crisi greca hanno avuto se non altro la virtù di mettere a nudo processi di gerarchizzazione continentale in atto da circa un ventennio.

Il popolo greco, sottoposto a un violento stress test da parte della catena di comando del capitalismo reale, avrebbe fatto volentieri a meno di prestarsi a questa funzione di disvelamento – in greco antico aletheia, «verità». Ma tant’è, e con questo scenario disvelato bisogna imparare a fare i conti, anche perché la lezione impartita al popolo greco e alle sue rappresentanze democratiche risuona come un de te fabula narratur per tutti gli altri anelli deboli dell’eurozona.

Ben assisa al centro nodale del processo gerarchico di costruzione europea sta la Germania. La questione tedesca, più che la questione greca, è la questione europea per eccellenza. Bene ha fatto Alberto Burgio su il manifesto (24 luglio) ad ammonire contro il rischio che la contesa continentale si sposti sul terreno del revanchismo nazionale, un terreno in cui ad incrociare le spade sarebbero inevitabilmente gli opposti luoghi comuni (brillantemente ribaltati da Piero Bevilacqua su queste stesse colonne) sulle «cicale» e le «formiche».

Sarebbe questa una maniera di eludere l’attenzione nei confronti delle dinamiche profonde del processo di gerarchizzazione in corso: una distrazione funzionale soltanto a gruppi dirigenti tradizionali boccheggianti in termini di legittimità sul terreno nazionale. E tuttavia, pur riconoscendo che la Germania non è sola in questa operazione di ridefinizione antidemocratica della catena di comando europea, ma che anzi attorno a lei si è cementato un blocco di paesi minori ancor più intransigenti; e pur tenendo nella dovuta considerazione il carattere a-territoriale delle istituzioni incarnate sotto le insegne della troika; nonostante tutto ciò, che sul tappeto pesi una enorme questione tedesca non lo si può certo negare in nome di una rassicurante narrazione irenica.

Per salde ragioni storiche, non certo genetiche o caratteriali, la Germania è diventata da metà dell’800 in poi un elemento di per sé eversivo della stabilità europea.

Dal lungo evo delle guerre europee, l’area geografica che venne configurandosi come «Germania» ereditò un imponente processo di innovazione industriale (e militare). Ma questo enorme potenziale di sviluppo si trovò ad insistere su un territorio angusto, privo di sbocchi imperiali «pacifici». In larga misura dominati i mari dall’impero britannico, al Reich era impedita anche una soluzione imperiale «territoriale» sul modello degli Stati Uniti (Giovanni Arrighi).

Con la sconfitta nella prima guerra mondiale, la Germania dovette rinunciare definitivamente a un esito imperiale di tipo «britannico»; con la sconfitta nella seconda, si rivelò impossibile anche un esito «statunitense», nonostante la ferocia riversata sulla «frontiera» est-europea (Lebensraum), con le popolazioni slave (Untermenschen) nel ruolo che altrove fu degli indiani. Le successive prospettive di pace si basarono pertanto sullo smembramento dello spazio statale unico tedesco.

La guerra fredda, prima che gli esiti del processo di de-colonizzazione ne sancissero il carattere globale, fu innanzitutto e soprattutto una risposta alla questione tedesca.

Così come lo furono i primi tentativi «atlantici» di integrazione europea. Con le Ceca (la comunità del carbone e dell’acciaio, ndr) si tentò di mettere sotto comune controllo la produzione siderurgica e carbonifera (industrie belliche per eccellenza), con la fallita Ced e con la Ueo fu invece la volta dei tentativi di integrare i sistemi politici e di difesa. Se non è possibile impedire un re-ingresso tedesco nel consesso delle nazioni, si pensò, che questo avvenga in maniera negoziata e consorziata con le altre potenze occidentali. Tanto più che c’era lo spauracchio sovietico a cui tenere testa.

Fu solo con la distensione che i progetti di integrazione militare furono soppiantati da quelli economici. I trattati di Roma del ’57 dettero il via alla Comunità economica europea, un mercato unico al cui interno l’economia tedesca, nel bel mezzo di un’accentuata stagione di crescita economica, era destinata ad un ruolo preminente, ma che si pensava potesse essere bilanciato e «messo al servizio» di una integrazione anche politica, alla lunga benefica per tutti.

Tanto più che, di lì a poco, con la lunga egemonia della Spd nei governi di Bonn, proprio dalla Germania venne la più articolata proposta di soluzione pacifica della questione europea (e tedesca): quella Ostpolitik lanciata da Willy Brandt, che tra l’altro (e non a caso) costituì lo scenario all’interno del quale anche il comunismo italiano si convertì all’europeismo.

Ma all’appuntamento con la riunificazione tedesca, l’evento che sta più di ogni altro alla base della successiva spinta alla definitiva integrazione europea ed al suo incontrollato allargamento, si giunse in piena stagione di riscossa neo-conservatrice; per cui la strategia della Ostpolitik fu sostituita da quella dell’Anschluss (Vladimiro Giacché), riversando sui territori e sull’apparato produttivo dell’ex Germania democratica una foga neo-liberista nella cui filigrana possiamo leggere un modello per la successiva costruzione dell’Europa gerarchica.

Francesi, italiani ed altri soci comunitari spinsero la neonata Germania unita ad accettare l’euro in cambio della benedizione all’unificazione, e lasciarono che l’euro stesso fosse plasmato ad immagine e somiglianza del marco. Un «vincolo esterno» cui i gruppi dirigenti dei paesi mediterranei si aggrapparono, introiettando la retorica sulla «inaffidabilità» dei propri popoli, in realtà favorendo l’attuale deserto produttivo in un clima di completa afasia democratica.

Ora nel seno stesso della metropoli si levano voci preoccupate sulla progressiva espansione di sentimenti anti-tedeschi nelle periferie europee. Ed è certamente positivo che nei Land più colpiti dagli effetti dell’unificazione neo-liberista un partito popolare e di sinistra come la Linke si faccia megafono del malcontento e strumento di riscossa politica.

Ma per smantellare l’Europa gerarchica, in favore della costruzione di un’Europa democratica, sono chiamati ad agire in prima persona i popoli delle periferie dell’eurozona, attraverso la messa in campo di progetti politici ed ipotesi di ricostruzione economica nettamente alternativi a quelli dell’ordoliberismo tedesco. Una sfida di lungo periodo, che passa per vie non facili, e che tuttavia pare l’unica possibilità di rilancio di un’idea democratica capace di recidere le maglie del recinto gerarchico dell’Europa tedesca.