Khalifa Ghwell, capo del disciolto governo islamico di salvezza nazionale, ha dato il via al suo piano approfittando ieri dell’assenza del primo ministro Fayez al Serraj, partito per l’Egitto nel tentativo (inutile) di persuadere il Cairo a sostenere il suo governo appoggiato dall’Onu e a prendere le distanze dall’uomo forte Khalifa Haftar che controlla l’Est della Libia. A Tripoli dozzine di miliziani armati, a bordo di automezzi, si sono lanciati all’assalto dei ministeri della difesa, del lavoro e degli invalidi di guerra, scontrandosi con le forze fedeli ad al Serraj. Per ore è regnata la confusione. Ghwell ha prontamente rilasciato un’intervista all’agenzia americana Ap e organizzato una sorta di conferenza stampa. «Le cose sono andare di male in peggio» da quando è stato formato il governo di al Serraj, ha spiegato l’ex premier. «Avevamo dato (al governo in carica) un anno di tempo – ha aggiunto – e quando ha fallito abbiamo deciso di tornare (al potere)…Siamo noi quelli con la legittimità». La situazione è rimasta avvolta nell’incertezza fino a sera quando fonti russe hanno riferito che le forze speciali libiche avevano ripreso il controllo degli edifici ministeriali assaltati dai “golpisti”. Quindi è intervenuto l’ambasciatore italiano, Giuseppe Perrone, che si è insediato in Libia appena tre giorni fa, per negare che fosse in corso un colpo di stato. «Non mi risulta alcun golpe in atto, le sedi istituzionali nelle quali opera il governo di accordo nazionale sotto la guida di Sarraj continuano a lavorare…Non so di scontri in città, sembra che ci siano dei movimenti di uomini vicini a Ghwell in alcuni uffici, più che in sedi del governo».

È stato l’ennesimo bluff di Ghwell? Forse. Ma l’accaduto ha scosso le fondamenta dell’«investimento politico» che l’Italia ha fatto come primo Paese occidentale a riaprire la propria ambasciata a Tripoli, quasi due anni dopo la chiusura della nostra sede diplomatica, al culmine di un’escalation di violenze tra milizie rivali. Già vacilla l’accordo – approvato ieri con favore anche dalla presidenza dell’Ue – che il governo Gentiloni, attraverso il ministro dell’interno Minniti, ha raggiunto con Tripoli per fermare (come?) i barconi dei migranti che partendo dalle coste libiche si dirigono verso quelle italiane. Il governo di al Serraj si è detto pronto a collaborare e, di fatto, a riattivare le intese che l’Italia fece con l’ex leader libico Muamar Gheddafi (giustiziato sommariamente cinque anni fa dai “rivoluzionari”) che impedì, con la forza e detenzioni disumane, le partenze per l’Italia. Gheddafi però guidava un regime forte, era in grado di dare ordini e di farli eseguire. Al Serraj al contrario resta fragile e, nonostante i suoi soldati siano riusciti a scacciare l’Isis dalla costa, il (maldestro) tentativo di golpe di Ghwell ha evidenziato che il premier appoggiato dall’Onu ha poteri limitati e non può contare su istituzioni solide ed inclusive.

La riconciliazione nazionale in Libia non è mai cominciata. Le milizie continuano a dettare legge, inclusa quella di Misurata che accusa al Serraj di averla lasciata senza fondi dopo aver combattuto duramente a Sirte contro i jihadisti del Califfato. Un anno dopo i proclami colmi di entusiasmo dell’Onu, a Tripoli continuano a confrontarsi il governo di al Serraj e quello “ombra” di Ghwell che non ha mai accettato le decisioni del Palazzo di Vetro e preme per tornare al potere. Poi ci sono il Parlamento a Tobruk e l’est del Paese sotto il controllo di Khalifa Haftar che mercoledì, tanto per dimostrare i potenti appoggi di cui gode, oltre a quelli di Egitto ed Emirati arabi uniti, ha visitato la portaerei russa Ammiraglio Kuznetsov. A bordo di essa Haftar ha avuto una video call con il ministro della difesa di Mosca, Sergei Shoigu. Resta evidente che alcuni degli attori, internazionali e locali, protagonisti sulla scena mediorientale e nordafricana non hanno intenzione di puntare sul cavallo sbagliato e preferiscono l’uomo forte.

La Libia peraltro sta affrontando una pesante crisi finanziaria con la popolazione in fila davanti a banche per giorni, al fine di ottenere denaro, e la capitale che soffre di frequenti interruzioni di corrente e la carenza di beni di prima necessità. La crisi di liquidità deriva da una controversia tra al Serraj e il capo della banca centrale che rifiuta di rilasciare i fondi necessari al governo appoggiato dall’Onu e con il quale l’Italia sta stringendo i rapporti.