Dieci anni fa moriva Giacinto Facchetti, capitano di lungo corso dell’Inter e della Nazionale. L’amicizia con lo scrittore Giovanni Arpino, l’impegno alla presidenza dell’Inter, il vano tentativo di ripulire l’ambiente del calcio, i conflitti generazionali e politici con i figli, che in casa leggevano il manifesto, l’affetto della gente e un libro a fumetti Giacinto Facchetti il rumore non fa gol (BeccoGiallo). Ne parliamo con il figlio Gianfelice Facchetti, attore di teatro.
Qualche anno fa hai scritto un libro sulla famiglia Facchetti «Se no che gente saremmo». Voi che gente eravate? Persone normali, dall’asilo alle superiori abbiamo fatto le scuole pubbliche, siamo cresciuti come gli altri. C’era la consapevolezza di aver avuto un padre che ha significato molto per tante persone, per la sua modestia non ha mai fatto pesare l’essere stato un calciatore famoso. Da bambini percepivamo qualcosa, a volte per strada quando eravamo con lui c’era sempre il tifoso che lo fermava e declinava a memoria la formazione della grande Inter. Fino a quando ci ha lasciati teneva ben separati la famiglia dal mondo del calcio, che era la sua seconda casa, ci era entrato da ragazzo fino a diventare presidente dell’Inter. In casa pretendeva riserbo, se a volte gli facevo qualche domanda inopportuna su un calciatore, sul quale i giornali avevano scritto, diceva di farmi gli affari miei. Penso che questo sia stato anche il segreto che gli ha consentito di crescere dei figli senza che pesasse su di noi la figura ingombrante del grande calciatore, anche se nella stessa persona c’erano il padre, il marito, il calciatore e il dirigente dell’Inter, una sintesi che ho colto sempre più da quando è mancato, la persona che conoscevo da figlio l’ho ritrovata nei racconti e negli aneddoti delle persone che lo hanno conosciuto e si sono strette intorno a noi.

Quando è scoppiato calciopoli era preoccupato per le sorti del calcio?
Si è arrovellato parecchio su quella vicenda, per fortuna la scomparsa avvenuta nel 2006 gli ha risparmiato le porcherie dette sul suo conto.  È stato uno dei pochi a essersi scontrato per cambiare un sistema che era marcio, basato sull’illecito, su una forma di potere iniqua, lui questo senso di ingiustizia lo avvertiva molto e sentiva il dovere di reagire, ma in quel mondo era molto solo.
Che cosa pensava della scelta di dedicarti al teatro, i figli dei calciatori di solito seguono le orme paterne.
Ho provato a giocare a calcio fino a 22 anni, prima nelle giovanili dell’Atalanta, poi in Lega Pro e serie D, mi piaceva ma non avevo una passione così forte da farne una ragione di vita. Ho incontrato il teatro per caso, lo vivevo come passatempo con dei corsi serali, mentre durante la giornata facevo il cameriere o il barista, avevo frequentato il primo anno universitario di Filosofia e dato alcuni esami, poi ho interrotto, ho lavorato come giardiniere, assicuratore con lui e mio zio, volevo trovare la mia strada e non avevo problemi a vivere situazioni scomode.
Approvava la tua scelta o era a disagio?
Era molto combattuto, da una parte apprezzava il fatto che non fossi a casa sdraiato sul divano, dall’altra era preoccupato, perché giravo a vuoto, lasciare la passione per il calcio a 22 anni e non avere un’altra ti spiazza. Dopo tre anni di teatro ho vinto una borsa di studio e ho capito che poteva essere la mia strada, dopo la scuola di teatro ho cominciato a lavorare con QuellidiGrock, ho ripreso a studiare e mi sono laureato in Scienze dell’ Educazione. Mio padre mi ha stupito, non era un grande frequentatore di teatri, ha preso a frequentarli per vedermi, a volte faceva centinaia di chilometri. Quando c’è stato il premio Ustica, nella fase finale, è venuto a vedermi a Faenza per 20 minuti, in un’altra occasione ha fatto alcune centinaia di chilometri per vedere la rappresentazione teatrale e poi tornare a Milano imbarcarsi a Malpensa con l’Inter per una partita di Champions League. Era diventato un ultrà del teatro, a volte durante la settimana veniva a vedere con mia madre più volte lo stesso spettacolo, aveva occhi pieni di ammirazione. Il fatto che uno sapesse scrivere per lui era qualcosa di soprannaturale, da qui nasce il suo legame con lo scrittore Giovanni Arpino, che mio padre considerava una semidivinità.

Come nasce la loro amicizia?
Nasce quando Arpino la prima volta va ad Appiano Gentile per intervistare papà, che cominciava a farsi notare nell’Inter, in quell’occasione lo scrittore dovette vincere le resistenze dell’allenatore Helenio Herrera, perciò gli fece un’intervista con un operatore, ma senza cassetta. Soddisfatto l’ego di Herrera, riuscì a intervistare mio padre e da allora diventarono amici, anche questo è il segno di altri tempi, giornalisti e calciatori avevano modo di frequentarsi. Quando si conobbero si creò un’empatia immediata, conversavano a lungo anche durante le trasferte della Nazionale. Per Giovanni Arpino Giacinto Facchetti era il prototipo dell’atleta perfetto, per papà Arpino era lo scrittore, uno che sapeva scrivere, un soggetto superiore. Mio padre che non era stato un grande lettore chiedeva consigli ad Arpino, divenne un appassionato lettore di Dino Buzzati, lesse tutte le sue opere, amava in particolare Il deserto dei Tartari, e tutti i romanzi di Giovanni Arpino. L’apice di questa amicizia si ebbe quando mia madre era in attesa del terzo figlio e papà chiese ad Arpino di tenerlo a battesimo, questo avvenne durante il ritiro dei mondiali di calcio del 1974 in Germania. Non si sapeva se sarebbe nato un maschio o una femmina, Arpino profetizzò la nascita di un maschio, dopo le prime due bambine. Dopo la mia nascita la mamma si sincerò che Giovanni Arpino sarebbe venuto davvero a Milano per fare il padrino, mio padre le rispose che nella vita quando uno promette una cosa poi la mantiene, e aggiunse ‘se no che gente saremmo’. Era anche il periodo in cui Arpino era nella fase finale della stesura del romanzo Azzurro Tenebra, uno dei più belli mai scritti sul calcio. Ho trovato tra le carte di famiglia una lettera bellissima scritta da Arpino a papà, quando ci fu un momentaneo accantonamento in Nazionale e lui è sull’aereo diretto a Sofia, nella lettera Arpino scrive che dopo anni di viaggi comuni era triste partire senza Giacinto Facchetti, lo chiamava mon capitaine. In vista dei mondiali del 1978 in Argentina, quando mio padre a seguito di un infortunio, non avendo recuperato del tutto, rinuncia alla convocazione, Arpino scrisse che in un paese in cui non si dimette nessuno, la rinuncia alla convocazione in Nazionale è un fatto straordinario. Si scrivevano spesso, poi siccome era stato il mio padrino, a Natale si faceva sentire o chiamava il giorno del mio compleanno. La loro è stata un’amicizia singolare durata fino alla morte di Giovanni Arpino.

Hai vissuto conflitti generazionali?
Sulle strade da prendere. Nel calcio si teneva a distanza, per lui non si smetteva mai di migliorare, mai io gli dicevo che facevo abbastanza. Quando ho deciso di smettere lui ha capito che non era per me, mi diceva l’importante che tu sia un bravo ragazzo, concludeva sempre le conversazioni con questa frase. A volte mi idealizzava, una volta dopo una serata con gli amici sono tornato a casa un po’ alticcio, avevo bevuto troppo ed ero stato male, lui si era preoccupato che non avessi preso troppo freddo, neanche lontanamente pensava che avessi bevuto. Era un uomo molto dolce.
Avevate conflitti politici?
Mio nonno era un ferroviere, a Treviglio girava con l’Unità sotto il braccio, mio padre era un moderato. A casa si leggeva ogni giorno il Corriere della Sera, la Gazzetta dello Sport e noi figli ribelli il manifesto. A volte leggeva quei titoli a effetto tipici del manifesto e scuoteva la testa, ci raccomandava di essere sempre moderati, io gli mostravo le pagine sullo sport e le discussioni si infervoravano, nel suo campo andava a fondo, a volte apprezzava quello che scriveva il manifesto, leggeva con attenzione e prendeva appunti, altre volte contestava. L’ultima intervista prima di morire la concesse a Massimo Raffaelli per Alias e gli era piaciuta molto.