In Giamaica gli istituti di massima sicurezza sono strutture che risalgono ai secoli dello schiavismo. Come Fort Augusta, il carcere femminile, costruito dagli inglesi nel 1740 come fortezza. Di poco più «giovani» i penitenziari maschili di St. Catherine a Spanish Town, e Tower Street a Kingston. Aldilà di alcuni interventi di cosmetica esterna, e l’apertura di tre sale computer nel 2005, le strutture rimangono le stesse dei tempi che furono; un po’ per la cronica penuria di fondi, ma soprattutto per la funzione punitiva ad aeternum che devono rappresentare. Dopo un’attesa durata oltre sei mesi, dalla presentazione della domanda, siamo riusciti a entrarci.

Il 9 ottobre 2012 i vari gruppi umanitari in Giamaica (Jamaicans for Justice, All-Sexuals and Gays e Stand Up for Jamaica) hanno duramente criticato la decisione del governo di trasformare il carcere di South Camp Road in un centro di detenzione che ospita sia donne adulte che adolescenti, laddove la Convenzione sui diritti dei bambini (Crc) sancisce la separazione assoluta. Inoltre tante giovanissime continuano a rimanere ammassate nei lock-up (minuscole celle, situate nelle stazioni di polizia e sedi giudiziarie), in attesa di trasferimento in carcere. Questi pertugi, che risalgono anch’essi a tre secoli fa, accolgono 10/15 detenuti per volta, lungo periodi che vanno da qualche giorno, fino a diversi mesi. In alcuni casi ricordano la gabbia dello sceriffo dei vecchi western, ma in altri, come nella famigerata police station di Falmouth, hanno solo un foro di apertura, chiuso da una grata, dal quale spuntano, in cerca di spazio vitale, le braccia dei prigionieri.

L’odore terribile della paura

Prima di autorizzare la visita, il Dcs (Department of Correctional Services) vuole una lettera con l’impegno a fornire benefici tangibili al carcere. Il Dcs, con i magri fondi elargiti dal governo che bastano appena per il cibo e gli stipendi alle guardie, conta sulle donazioni dei privati e il supporto di ong come Stand Up, che a sua volta riceve finanziamenti dall’Unione Europea e dalla Cvc (Caribbean Vulnerable Communities).

Una volta varcato il cancello del St. Catherine Adult Correctional Centre, noto come Spanish Town Prison, si avverte un tanfo, misto di umidità e sudore della Paura, materia prima del sistema carcerario in genere; l’olezzo, accentuato dalla canicola, è il primo segnale che siamo entrati in un altro mondo.

Prima del tour Mr. Reuben Kelly, il dinamico direttore del penitenziario, snocciola dati inquietanti con inaspettata trasparenza: l’istituto ospita 1120 detenuti, rinchiusi in celle, che vanno da una a tre persone, 720 in totale. Oltre un migliaio di reclusi, costretti a spartirsi cinque latrine e due docce. Non esiste distinzione tra ergastoli e reati lievi, tranne una security section, un reparto di sicurezza, avvolto da filo spinato, dove sono isolati i detenuti più pericolosi. Tutti insieme, anche i detenuti sani e i circa 50 sieropositivi, una quarantina di malati mentali, 200 diabetici, oltre a numerosi casi di scabbia. Tutti tranne gli omosessuali, che, a causa della sempiterna omofobia che affligge la Giamaica, vivono in un settore separato, per la loro sicurezza.

Tranne le cure generiche, nessuno gode di un regime sanitario particolare. La precarietà delle misure igieniche è il tasto su cui batte di più il direttore, che cerca aiuto per la costruzione di una ventina di bagni nuovi. Racconta degli allagamenti del sistema fognario interno e il conseguente riversamento dei liquami, soprattutto nelle aree di lavoro, con l’unico ventilatore rotto.
La permanenza in cella è obbligatoria dalle 18 alle 6 del mattino. Per il resto della giornata sono previste sei ore di lavoro, e le rimanenti si dividono tra pasti e tempo «libero». Quando usciamo sul cortile, sono appena le dieci, ma il sole è già perpendicolare al terreno; 38° all’ombra, magari ce ne fosse. Reticolati ovunque; in mezzo a due di questi, un corridoio in terra battuta, dove alcuni reclusi giocano a calcio. La gente ciondola in giro, si respira un’aria di rassegnazione, cementata da una routine che non sgarra di un millimetro. Il tam-tam silente che intuiamo è: white men in visita, fate i bravi, che magari qualcosa esce anche per voi.

Mark Levy, della gang «One Order», condannato per estorsione, ci mostra un rigonfiamento mostruoso dietro la nuca che lo tortura da nove mesi. Sembra un linfoma, ma nessuno si è preso la briga di visitarlo. Le guardie che ci scortano nervose, lo allontanano. Solo due medici sono presenti saltuariamente. Oggi non è reperibile nessuno, per chiedere ragguagli. Proprio di fronte c’è l’ospedale pubblico di Spanish Town, ma i ricoveri fuori dal carcere sono vietati.

È il turno delle cucine; 4 steam units (unità a vapore) di cui solo due funzionanti. Pavimento in condizioni pietose, talmente unto che si rischia di scivolare. Va un po’ meglio nel reparto bakery, il forno; ben tenuto e spazioso, offre una discreta varietà di doughnuts, ciambelle decorate con zucchero e marmellata. Per il profumo che emana, lavorarci dentro sembra un privilegio.

Meno male che c’è la radio

Dal 2005, alcuni penitenziari giamaicani, quali Spanish Town, Tower Street, e Rio Cobre Juvenile, sono collegati in rete. Spanish Town ha 11 computer, però manca ancora la stampante. I reclusi possono svolgere ricerche e tenersi aggiornati, anche se vige il divieto di scambiare e-mail con l’esterno, e di utilizzare i social network. Sul retro della sala informatica, dal 2009, trasmette la stazione radio, Free Fm 88.9. La scuola è divisa in due sezioni, con turni differenti. Il problema è lo spazio: solo 140 detenuti hanno la possibilità di studiare, anche per la penuria dei libri di testo, carissimi. Il «lusso» è dunque ristretto al 10% dei reclusi. D’altra parte, anche nella Giamaica libera, l’istruzione non è certo una priorità della ruling class, così la media nazionale di chi può permettersi un’education completa, si riflette inevitabilmente nel mondo sommerso delle carceri. Meno male che c’è la radio, almeno quella. Le famiglie possono ascoltare la voce dei reclusi in streaming.

La giornata di vita pseudo normale, nei penitenziari dell’isola, termina alle 18. Nelle 12 ore successive, l’uomo smette di esser tale; subentra la notte, e con essa, lo stato bestiale che lo accompagnerà fino al mattino successivo.
Le celle sono divise in quattro sezioni, allineate. Nella sezione A-1 c’è uno stretto corridoio, sul quale si affacciano le inferriate delle celle; entriamo in una a caso, dopo aver chiesto il permesso al suo occupante. Dobbiamo abbassarci, per varcare l’entrata. All’interno, un ambiente di 4×2 privo di mensole; gli oggetti personali del condannato sono sparsi sul pavimento. Le pareti sono talmente malmesse che in diversi punti sono rabberciate con pezzi di compensato. Non esiste areazione, l’unica apertura è quella delle sbarre. Cerchiamo un water, o almeno una turca. Nulla.

Sia per le dimensioni che per la forma, la cella ricorda una scatola. Chiediamo al suo inquilino come fa per i bisogni. L’uomo mostra un giornale e una busta nera di plastica, quella che in Giamaica chiamano scandal bag. Il recluso deve defecare nella carta e poi depositare il pacchetto nella busta, dove resta fino al giorno dopo. Per urinare, una bottiglia. Per le abluzioni, un secchio d’acqua; i secchi fuori formano una lunga fila di recipienti di plastica variopinta.
Grazie alla moltitudine di gatti randagi i topi sono rari. In compenso con il buio arrivano i cockroaches, gli scarafaggi caraibici, mostri alati, con antenne e zampe pelose, e dimensioni che possono arrivare ai 10 cm. Le loro feci causano svariate infezioni. I loro fruscii sono la colonna sonora del condannato.

La sezione B-1 è anche peggio; il fetore ammorba l’aria, e lo stato esterno delle celle, causa gli intonaci marciti dalla muffa, inenarrabile. Ascoltiamo vari racconti dai reclusi: Clifton Wright è un gigante nero di oltre due metri. Condannato a morte nel ‘82, la sua sentenza è stata commutata in ergastolo; sono 32 anni che è rinchiuso qua dentro. In Giamaica, l’ultima condanna a morte è stata eseguita nel 1988, ma ci sono ancora detenuti in lista d’attesa. In seguito alle pressioni della Convenzione Americana sui Diritti Umani, che lo Stato ha ratificato, queste condanne sono state sospese, ma non annullate. Mr. Wright ha sempre sostenuto la sua innocenza, per cui, secondo la legge giamaicana, non ha diritto a Parole (libertà vigilata, dopo aver scontato un certo periodo). Il suo legale, Mickey Lorne, famoso per difendere Vybz Kartel (la star della dancehall, condannata all’ergastolo il 3 aprile) lo ha mollato, perché aveva finito i soldi.

In Giamaica esiste un solo grado di giudizio. Se un detenuto vuole appellarsi, deve avere molto denaro per sostenere la procedura legale. Che l’uomo sia una Mdw (Mass Destruction Weapon) o, al contrario, un novello Hurricane Carter (il campione nero dei pesi medi riconosciuto innocente dopo 20 anni di detenzione) forse non lo sapremo mai.

L’upper-class, anglofona che controlla e possiede la Giamaica, ha tanta ricchezza tra le mani, ma non investe sul rimodernamento delle proprie obsolete strutture coloniali, e poco comunque sulle infrastrutture. Però soprattutto non investe a livello di dignità umana. Il marchio d’infamia più grave, è quello di permettere che un uomo, innocente o colpevole che sia, debba essere bestialmente degradato a defecare in un giornale, magari per il resto della sua vita, ai fini di soddisfare l’ansia di vendetta di una società perbenista/post-schiavista, che perpetra le nefandezze del passato.