«Università in declino. Indagine sugli atenei da Nord e Sud», da pochissimo uscito per Donzelli, è la prima ricerca scientifica, finanziata dalla fondazione Res, che descrive gli effetti devastanti prodotti dal sistema «meritocratico» nell’università e nella ricerca in Italia. Ne parliamo con l’economista barese Gianfranco Viesti, curatore del volume.

Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata all'università di Bari
Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata all’università di Bari

L’università sta affrontando un cambiamento epocale che espone a un rischio mortale le università del Centro-Sud e delle isole. Come si è arrivati a questo punto?
È il risultato di cinque anni di politiche che hanno ridotto fortemente l’investimento nell’istruzione superiore e hanno ripartito questa riduzione in misura molto diversa tra gli atenei. Oggi diminuiscono gli studenti, gli insegnanti, i corsi e i finanziamenti. Questo circolo vizioso rischia di portare a un forte ridimensionamento e addirittura alla scomparsa di alcuni atenei.

In Italia è avvenuto il più grande disinvestimento sulla formazione tra tutti i paesi Ocse. Qual è il progetto politico che ha ispirato questa decisione?
è un disinvestimento che non ha paragoni né nel tempo né in confronto agli altri paesi. La Gran Bretagna ha privatizzato ma non ridotto l’università. La Spagna ha ridotto gli investimenti ma meno e partendo da livelli più alti dei nostri. Il disegno non è stato mai reso esplicito, non è chiaro verso quale tipo di sistema si voglia andare.

E tuttavia l’attacco è fortissimo…
È un attacco all’università in quanto tale. Settori della politica ritengono che qui si annidino i nemici, i baroni o un ceto parassitario. In termini sociali chi patisce di più questi cambiamenti sono le famiglie più povere perché con un fortissimo aumento delle tasse universitarie e l’inconsistenza del diritto allo studio, molti dati lasciano pensare che la riduzione delle iscrizioni riguardino in particolare le famiglie a reddito più basso con un effetto molto negativo sulla dinamica della diseguaglianza nel nostro paese.

In più si dice che laurearsi non serva più a trovare un lavoro…
È un bombardamento mediatico per cui questo grande sacrificio di pagare l’istruzione universitaria ai figli tutto sommato non rende e non garantisca più un posto di lavoro. Certamente i tassi di occupazione dei laureati si sono molto ridotti con la crisi, ma restano comunque più alti di quelli dei diplomati.

Per quale ragione critica la «retorica del merito» applicata alla valutazione della ricerca e al finanziamento degli atenei?
Il merito, sotto forma di premio alle performance delle politiche pubbliche, è una cosa seria e positiva a mio avviso. Consiste nell’indicare gli obiettivi da raggiungere all’inizio, definendo gli indicatori con cui si misurano le performance e destinando risorse aggiuntive a chi le raggiunge. Nell’università è stato applicato in tutt’altro modo: sono stati adottati 22 indicatori diversi in sette anni, legati alle condizioni esterne agli atenei e non ai loro comportamenti. Hanno premiato molto più le situazioni di partenza che non i comportamenti virtuosi. I criteri del merito sono scelti in base a una scelta politica. Chi li usa per punire chi viene ritenuto più indietro fa un’operazione assolutamente discutibile e indebolisce gli atenei e il sistema nel suo insieme. La forza dei sistemi universitari non sta nell’avere qualche eccellenza isolata ma nell’avere forze diffuse. E i dati ci dicono che, ammesso si possa misurare la qualità, la sua variabilità è maggiore all’interno degli atenei che non fra atenei.

Università in declino Un'indagine sugli atenei da Nord a Sud (Donzelli)
Università in declino Un’indagine sugli atenei da Nord a Sud (Donzelli)

Mi faccia un esempio.
Il decreto del 18 febbraio che finanzia 861 posti per ricercatori. Sono stati destinati due ricercatori per ogni ateneo indipendentemente dalla dimensione, con un premio gratuito agli atenei più piccoli. Nell’insieme parliamo del recupero di circa il 10% della riduzione di personale negli ultimi anni. Questo recupero è molto più forte in alcuni atenei, molto debole in altri. E uno degli indicatori di merito è di essere piccoli fra cui quelli da cui provengono gli ultimi due ministri dell’università, Giannini e Carrozza.

L’esplosione spettacolare della burocrazia dell’Anvur è collegata alla creazione del regime meritocratico nell’università?
L’Anvur è diventato uno strumento importante di queste dinamiche. I suoi numeri sono diventati strumenti per mettere in atto queste politiche. Qui emergono due aspetti: il primo è come viene fatta la valutazione. Nessuno ha la verità, è un processo difficile, meriterebbe più cautele e non pretendere che i numeri siano dogmi assoluti. Il secondo è che ne facciamo della valutazione. La valutazione serve a tutti per conoscere la situazione e migliorarla. In Italia assai più che altrove in Europa, invece è diventata uno strumento per ripartire in maniera asimmetrica i tagli.

L’obiettivo di un processo ispirato al «pensiero unico» della meritocrazia è quello di dividere l’università in serie A e B?
Non c’è scritto su alcun documento, ma è un esito possibile. Almeno in Inghilterra l’hanno annunciato. In Italia no. Questo esito sembra più delegato alla tecnica dei numeri, come se la politica fuggisse dalle proprie responsabilità e si nascondesse dietro il paravento del merito. Sicuramente dividere il fronte è molto utile per dividere le proteste. Le università e noi universitari non abbiamo certo brillato negli ultimi anni per capacità di capire quello che stava avvenendo e di contrastare questi processi. L’impressione che si ha è quello di un fronte frammentato in cui molti coerentemente con quanto avviene in altri settori della vita italiana hanno provato più a mitigare i danni per se stessi che non a costruire un fronte comune per cambiare la situazione.

Renzi ha annunciato 2,5 miliardi per la ricerca, in realtà destinati al programma nazionale della ricerca. Lei crede che i fondi europei potranno supplire alla mancanza dei fondi ordinari?
Prima vediamo cosa c’è in questo piano perchè non ne abbiamo mai più avuto notizia da quando è stato presentato dal governo Letta. L’impressione è che una parte sostanziale di quelle risorse esistano già sia nei fondi europpei che in quelli nazionali. Vediamo cosa ci sarà nella versione finale. Ad oggi abbiamo una riduzione fortissima della ricerca di base universitaria e degli enti di ricerca e poi abbiamo programmi di ricerca e innovazione sia nazionali che regionali che in teoria dovrebbero essere aggiuntivi rispetto allo zoccolo di partenza che invece si sta riducendo. La mia preoccupazione è che riducendo l’ordinario e inserendo qualche elemento di spesa straordinaria si crei solo un quadro con molta più incertezza e frammentazione delle risorse.

Migliaia di docenti protestano contro la valutazione della ricerca (VqR) e il blocco degli stipendi. Secondo lei è una protesta corporativa?
Il blocco degli stipendi è particolarmente odioso perchè è il più forte e persistente rispetto a qualsiasi altra categoria. D’altra parte non è che i docenti italiani guadagnino chissà quali stipendi d’oro, quindi la definirei una protesta di carattere sindacale e ragionevolmente condivisibile. Quella contro la VqR ha molti aspetti condivisibili sia per i meccanismi farraginosi e costosi con cui viene avviato il nuovo esercizio di valutazione, sia soprattutto per l’uso che si fa della valutazione.

Cosa pensa della protesta dei ricercatori precari per i quali la ricerca è un lavoro? Perché in Italia non è considerata tale?
Siamo in una situazione di emergenza perchè il normale di ricambio nelle università e negli enti di ricerca si è praticamente bloccato da molti anni. Le risorse, anche per contratti precari, sono diminuite e le possibilità di lavoro nel privato già modeste in Italia si sono fortemente contratte con la crisi economica. È un quadro terribile nel quale, di fronte a investimenti di anni e anni in formazione e ricerca un giovane assai qualificato trova davanti a se tutte le porte chiuse e solo un cartello dove c’è scritto: “se vuoi lavorare vattene all’estero”.

Qual è il principale antidoto contro la scomparsa dell’università del sud (e non solo)?
La politica. Serve un sussulto del nostro paese per cui riesca a guardare al suo futuro e a capire quali sono le scelte da fare oggi per stare meglio domani. In fin dei conti stiamo parlando di investimenti pubblici cioè della ricetta che tutti da Draghi in giù suggeriscono per rilanciare in particolare l’economia italiana. Non si tratta solo di soldi. All’università dev’essere richiesto di migliorare molto, di essere più efficiente, più aperta alle critiche, di cancellare un passato di nepotismi e favoritismi e quindi un progetto paese che associ a un investimento maggiore una qualità della spesa e del funzionamento di queste fondamentali istituzioni pubbliche sempre maggiori. La paura è che invece di far diventare l’università più forte e di migliore qualità la si stia riducendo di dimensione senza affrontare i suoi problemi di fondo.

Auspica un movimento che parta dall’università e coinvolga la società?
Sono molto all’antica, credo che il ruolo dell’intellettuale, se così posso qualificarmi per il fatto che insegno e scrivo libri, sia quello di analizzare razionalmente i problemi e di indicare possibili soluzioni. Senza lasciarsi coinvolgere da pessimismi personali che in questo periodo non sono ingiustificati, ma che dobbiamo avere la forza di mettere da parte.

Una professione da intellettuale weberiano, l’analisi dev’essere libera da «giudizi di valore»…
Proprio così.

Dossier: #Salviamolaricerca