Quasi venticinque anni, un quarto di secolo. Da tanto mancava, discograficamente parlando, Gianni Nocenzi. Per chi ha ricordi preziosi della grande stagione del progressive rock italiano, Gianni Nocenzi è , per sempre, il ragazzo elegante con una silhouette ottocentesca, dai lunghi capelli neri che fluttuano mentre accende incendi romantici sulla tastiera per il suo Banco del Mutuo Soccorso, di fronte sul palco al fratello Vittorio, chino su un’altra tastiera. Gianni Nocenzi torna, finalmente, con un disco di solo piano acustico (Gmebooks) che contiene sei preziose tracce “live in studio”. Ne abbiamo parlato con lui.

Il titolo “Miniature” suggerisce una sorta di “asciugatura” della musica, fino a ridurla a una specie di essenziale “canto”: te lo ha suggerito l’uso del pianoforte acustico stesso, o i temi erano già nati così, e poi fissati sul pentagramma in un momento di ispirazione?

Sì, credo che l’ “asciugatura” della musica, come la chiami tu, ci sia, ma non è stata una scelta compositiva fatta a tavolino per questo progetto. ‘Miniature’ esprime semplicemente il mio modo attuale di pensare musica e di suonare il pianoforte. Di sicuro la ricerca di un ‘canto essenziale’ è una cosa che mi prende molto negli ultimi anni. Per il resto, rovesciando l’equazione, forse è il materiale che ha suggerito la scelta del solo piano più che il contrario.

Il disco è per molti versi vicino a quei lavori di composizione che, qualche anno fa, venivano definiti “new acoustic music” , note che attingevano a profili melodici saldi, con espliciti riferimenti al pianismo romantico, e a quella linea pianistica jazz che si può far risalire a Bill Evans. Cosa ne pensi?

Non conoscevo questa definizione, spero non rimandi a cose come la ‘new age’ che sono lontane dalla mia sensibilità. La melodia sì, certo. Questa è stata una scelta, come una scelta quella di muovermi assolutamente in ambito tonale dal punta di vista armonico, con appena qualche venatura di modalità (ma la modalità noi italiani l’abbiamo nel sangue grazie al ‘canto’ gregoriano: non abbiamo bisogno di acquisirla dal jazz). Per quanto riguarda l’ascolto devo confessare che sono letteralmente incapace di ascoltare musica se sto facendo altro, di conseguenza ascolto pochissimo. Nelle rare occasioni (automobile, aereo) ascolto musica classica ed il periodo tardo e post-romantico mi affascina indubbiamente molto.

Il minutaggio di Miniature è uguale a quello degli antichi dischi in vinile dell’art – prog rock. E’ stata un’esigenza “naturale” scegliere questa durata,cioè rifarsi a quei picchi di attenzione sull’ascolto che un tempo erano 15/20 minuti per “facciata”, o è tutto un altro discorso?

Sì è proprio questo, anche se me ne sono accorto a lavoro finito senza ancora conoscere i tempi della registrazione. Semplicemente ho sentito che a 38’ circa, sintatticamente, il discorso era completo. D’altra parte credo che la durata del vecchio ellepì sia una sorta di ‘durata aurea’ sia per chi si esprime sia per chi ascolta. Magari io l’ho interiorizzata ai tempi dell’analogico. Non vorrei sbagliare ma mi sembra di aver letto che quando scelsero l’ellepì come supporto (33 giri e 1/3 al minuto) era perché poteva contenere, sulle due facciate, quell’antonomasia musicale che è la Nona di Beethoven. Un approccio alla musica prevalentemente quantitativo, bulimico, non mi sembra sia utile. E’ così anche per il vino buono.

Quanta improvvisazione c’è in Miniature?

Spesso sul concetto di improvvisazione c’è una certa confusione e si indulge ad una sorta di mitologia. ‘L’uomo è ciò che mangia’ (Feuerbach? Non ricordo). Quando improvvisi stai comunque riesplorando/riscrivendo quello che hai già interiorizzato dai tuoi studi, dai tuoi ascolti, non sei in trance, eterodiretto da un qualcosa di esterno. Qui ci sono temi nati da improvvisazioni direttamente allo strumento, poi codificati, ed al momento della registrazione espressi nel loro sviluppo, durata, dinamiche in modo di nuovo improvvisato.

Quale ricordo hai dell’incisione?

E’ stato un azzardo. Avevo la febbre alta, ma non potevo scappare dopo aver detto sì al mio amico Luigi Mantovani, produttore del disco: nello studio c’era il pianoforte noleggiato, tutti i tecnici pronti e per di più molti amici e per la prima volta, dopo la malattia, mio fratello Vittorio. In modo molto inusuale per me avevo invitato tutti in studio. Ho retto due session di un’ora e mezza ciascuna. Fatto decantare il materiale, tutti mi hanno detto che era valido, allora ho preso coraggio, ne ho curato l’aspetto prettamente meccanografico ed è nato ‘Miniature’.

Ti capita mai di pensare che hai fatto parte di uno degli ensemble più significativi e maturi del progressive rock internazionale? Come ricordi il giovane Gianni Nocenzi nei momenti in cui stava per salire sul palco, e dall’altra parte centinaia, migliaia di altri giovani coetanei o quasi che aspettavano?

Non posso dire di ‘pensarci’ molto perché è un sentimento sempre vivo, ‘in essere’. E’ stata una esperienza talmente intensa e coinvolgente che nonostante l’abbia interrotta da molti anni, perlomeno nelle manifestazioni visibili, non ho avuto ancora modo di elaborarla compiutamente per rispondere alla domanda ‘ma che è successo veramente?’. Tali e tanti sono i rimandi collaterali, molti dei quali extra musicali, che è difficile sintetizzarli qui. Ricordo di sicuro l’urgenza espressiva, sia davanti a diecimila persone che davanti a trecento in un piccolo club, a vent’anni non c’era spazio per molte altre considerazioni. Ti sentivi all’interno di un qualcosa di più ampio di te e della tua musica ed anche la sintonia anagrafica tra musicisti e spettatori fosse un elemento forte. Credo che tutti, pubblico e musicisti, siamo stati attraversati da un’ ‘aria del tempo’. E’ stato molto bello.

Dunque pensi che quegli anni siano stati un momento irripetibile, per la musica, dovuto alla concomitanza di molti fenomeni sociali e culturali assieme o forse in futuro potrebbe nascere una nuova “musica di sintesi” come il prog rock seguita da migliaia di persone?

In quei termini e con quelle modalità è difficile si possa ripetere proprio per la concomitanza di altri fattori specifici di quel periodo storico di cui la musica era al tempo stesso espressione ed in qualche modo motore. Migliaia di persone che per la prima volta si muovevano rompendo i recinti che qualcun altro aveva stabilito per loro (il tema del viaggio, l’autostop, la tenda, i vestiti da comprare al mercatino dell’usato) per arrivare ad un concerto rock, una ritualità laica collettiva, amplificata: anche in senso stretto, ogni nota che suonavi era amplificata da migliaia di watt. Certo che potrà nascere una nuova musica sincretica ed io lo auspico, seguita più che da migliaia da milioni di persone, viste anche le odierne tecnologie, ma proprio queste però potrebbero impedire la fisicità, il contatto diretto, caratteristici di quel periodo.

Nella copertina di Miniature sei raffigurato come una specie di “angelo”. E nei titoli ricorre una leggerezza legata alle ali. L’angelo è un “messaggero”: così sono i musicisti?

Anni fa ho scritto la musica per ‘Un señor senor muy viejo con unas alas enormes’ di Fernando Birri, cineasta, poeta, pittore Argentino, mio carissimo amico e maestro. Era un film tratto da una novella di Marquez con sceneggiatura dello stesso Marquez e Birri. E’ la storia di un Angelo vecchissimo che non ce la fa più a volare e cade in un paesino dei Caraibi. Da allora ogni tanto mi trovo ad avere a che fare con le ‘ali’. La scelta del titolo ‘Farfalle’ e ‘Engelhart’ per due dei brani ad esempio. La stessa foto della copertina è del tutto occasionale: uno splendido ‘errore fotografico’ che Andrea Basile e Gio Spada, fotografo ed art director di ‘Miniature’, hanno trasformato in quella specie di . In realtà è l’ombrello usato dai fotografi per convogliare la luce, che si riflette sul vetro dello studio. Credo che il musicista, ma più in genere l’artista, possa essere ‘messaggero’, non autore del messaggio, a patto che non e cerchi di collegarsi con qualcosa di più ampio.

Le note biografiche dicono che in questi anni ti sei dedicato alla ricerca in studio. Ma lo studio ti ha anche dato da vivere? E’ stata una scelta quella di stare lontano dalle scene, dall’obbligo di “produrre” dischi con una certa continuità?

Sì, una scelta dovuta a quella che a me sembrava (e sembra) una mancanza di rispetto per la musica e le arti in genere in Italia con la quale mi dovevo confrontare ogni giorno. Avendo avuto la fortuna di potermi esprimere fin da giovanissimo ho avuto paura di rovinare quanto fin lì realizzato proseguendo con una routinaria alternanza disco-tour funzionale solo alle esigenze del cosiddetto show business. E’ stata una scelta molto difficile e dolorosa, ma dopo 13 dischi e centinaia di concerti ho dedicato il mio tempo allo studio sulle nuove tecnologie per fare musica. La ricerca sul timbro è una cosa che mi ha sempre affascinato e dalla mia collaborazione con una primaria azienda giapponese sull’allora neonata tecnologia del campionamento digitale ho tratto anche le risorse economiche per poter dire di no a quanto non mi piaceva. E inoltre un grande arricchimento come spesso solo la ricerca e la sperimentazione ti possono dare.

Cosa pensa Gianni Nocenzi del Gianni Nocenzi pianista?

E’ difficile rispondere. Penso che dal punto di vista strettamente pianistico suonavo meglio quando avevo venti, venticinque anni . D’altra parte come tutte le discipline lo strumento richiede molta dedizione. Non ricordo quale grande pianista ha dichiarato ‘quando non suono per una settimana io me ne accorgo, quando non suono per due settimane se ne accorge il pubblico’. Avendo fatto tutt’altro che stare al pianoforte negli ultimi trent’anni.. potete immaginare. Forse l’unica cosa è che oggi sono un po’ più consapevole.

Uno dei futuri possibili continua ad essere la musica e l’elettronica assieme, per te?

Sì senz’altro, purché l’elettronica sia anch’essa musica e non espressione di puro potere tecnologico.

Qual è l’ultima musica che è riuscita a commuoverti?

Pur con un ascolto limitato, mi commuove tanta musica da Chopin a Jarrett. Poi ci sono cose per me in parte inspiegabili: mi è capitato di piangere, letteralmente, ascoltando il tema della Sesta di Ciajkovskij ma la stessa cosa mi è capitata, inspiegabilmente, al Louvre davanti a ‘L’homme au gant’ di Tiziano Vecellio. La con-mozione è una cosa strana e affascinante.

Un ricordo, in due frasi, di Francesco Di Giacomo e di Rodolfo Maltese del Banco, che non ci sono più?

Due fratelli maggiori (il terzo, Vittorio, lo è anche all’anagrafe). Di loro oggi amo ricordare soprattutto la valanga di risate che comunque ha sempre accompagnato il nostro attraversare insieme, spesso con fatica, un mondo folle dal quale, grazie anche a loro, ho imparato molto.