Nel luglio 2004, in viaggio verso Basilea, da dove avremmo proseguito per Bonn pedalando sulla pista che fiancheggia il Reno, persuasi mia moglie a fermarsi un paio di giorni in un paesino dopo il Col du Lautaret, lungo la strada che fra le Grandes Rousses e il Massiccio des Écrins scende a Le Bourg d’Oisans. Da lì, i corridori del Tour de France sarebbero partiti per la cronoscalata dell’Alpe d’Huez. Decisi di arrivare sul percorso scalando il Col de Sarenne da Mizoën e l’indomani affrontai la salita con il sole già alto, mescolandomi ad amateur di ogni paese, età, genere e taglia. A un certo punto, mi affiancò una coppia e scambiammo qualche convenevole. Erano canadesi del Pacifico e, pur con il volto trasfigurato dallo sforzo, dovetti lanciare un’occhiata interrogativa, perché si affrettarono a giustificarsi: l’uomo disse che aveva ricevuto il contagio dalla compagna, la quale spiegò che era stato il padre, emigrato nella British Columbia dalla Normandia, a passarle l’ardente passione per il ciclismo. Nei racconti del genitore, le figure di Merckx e Gimondi, di Poulidor e Anquetil, di Gaul e Bobet avevano assunto contorni straordinari, che attingevano addirittura le vette del mito per mostri sacri come Fausto Coppi e Gino Bartali. Prima che mi staccassero, il petto mi si gonfiò d’orgoglio nel dichiararmi concittadino del campione fiorentino.
Manco a dirlo, Lance Armstrong “spianò” i 21 tornanti della tappa e consolidò la maglia gialla che avrebbe tenuto fino a Parigi. Mentre assistevo al dominio del texano, mi tornarono in mente i due canadesi e pensai che un incantesimo ben strano aveva gremito lo stadio naturale più grande del mondo: centinaia di migliaia di tifosi si erano radunati nello stesso luogo e nello stesso momento, alcuni stregati dall’eco sempre viva di “Gino Le Pieux”, come i francesi chiamavano Bartali, e altri attirati dallo scostante fuoriclasse americano, due uomini che mi parevano diversissimi fra loro. E ancora non sapevo che quello non era altro che il sesto di sette Tour che Armstrong si sarebbe visto revocare per l’uso sistematico del doping, una pratica illecita che aveva tenuto accuratamente segreta per oltre un decennio, respingendo sdegnosamente i sospetti che pure a volte lo avevano sfiorato. Come il devoto toscana, verrebbe da dire, che però usò lo stesso impenetrabile riserbo per coprire il suo ruolo nel salvataggio di centinaia di ebrei nella Seconda guerra mondiale, così che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi poté conferirgli la medaglia d’oro al valore civile solo alla memoria: «i’ bene si fa, ma un si dice», era solito ripetere “Ginettaccio”, altrimenti non è generosità, ma vanagloria.
Gino Bartali era nato a Ponte a Ema, alle porte di Firenze, nel 1914. Scalatore e scattista, dominò le corse alla fine degli anni ’30, conquistando un paio di Giri d’Italia e il Tour de France del 1938, nonché svariate classiche e corse in linea. Dopo la guerra, continuò a vincere da “vecchio”, quando il paese si spaccò sulla linea di faglia che divideva “bartaliani” e “coppiani”. La sua impresa più memorabile l’aveva però compiuta mentre l’Italia era in preda alla guerra civile e sopportava la duplice occupazione di nazisti e Alleati. Pur essendosi affermato come campione all’apogeo del fascismo, Bartali non aveva mai ceduto alle lusinghe del regime. Era notoria la sua salda fede cattolica e i gerarchi ne guardavano con sospetto la devozione, che lo rendeva indocile alle strumentalizzazioni della dittatura. Quando saliva sul podio per ricevere il premio del vincitore, non ringraziava mai il duce, com’era di fatto obbligatorio, e più volentieri rivolgeva un pensiero alla Madonna. Aveva conosciuto Alcide De Gasperi militando nell’Azione Cattolica, frequentava il pontefice ed era amico intimo del cardinale di Firenze Elia Dalla Costa, che aveva oscurato le chiese della città quando Hitler venne in visita ufficiale su invito di Mussolini. Fu proprio Dalla Costa a chiedere a Bartali di entrare nell’organizzazione che aiutava gli ebrei a fuggire le camere a gas. Il ciclista accettò e dopo il settembre 1943 percorse almeno 40 volte il tragitto fra Firenze e Assisi, nascondendo nella canna del sellino o nell’impugnatura della bicicletta documenti falsi e fotografie, che i profughi usavano per scappare oltre la linea Gustav, nell’Italia già liberata. Se l’avessero scoperto l’avrebbero fucilato, ma Gino corse il rischio e lo celò anche all’amata moglie, la quale ignorava pure che il coniuge nascondeva nella cantina di una sua casa la famiglia Goldenberg, i cui quasi trenta discendenti vivono oggi in Israele.
Qualche volta gli intimavano l’alt ai posti di blocco, ma il suo volto era un lasciapassare sempre valido. Se non bastava, apostrofava i militari di pattuglia con l’inconfondibile accento, «Sono i’ Bartali, ragazzi, e vo ad allenarmi», e finiva che gli chiedevano l’autografo. Altre volte sostava scientemente alla stazione di Terontola, snodo fondamentale della linea Milano-Roma e di quella che si dirigeva verso l’Umbria, dove erano costretti a cambiare treno molti fuggiaschi antifascisti ed ebrei che scappavano a sud: Gino smontava dalla bici, attendeva il fischio della locomotiva e quando la vedeva avvicinarsi, si avviava verso il bar della ferrovia, dove in breve veniva riconosciuto e acclamato; la rumorosa folla distraeva i soldati di presidio e quel diversivo serviva ai ricercati per eludere i controlli.
Bartali non si negò mai all’affetto della gente. Sulla bicicletta rossa e verde, si allenava percorrendo le strade che tagliavano i campi dove avrebbe faticato se non avesse avuto la stoffa del campione. I contadini si toglievano il cappello, si asciugavano il sudore della fronte, poggiavano il gomito sul manico della vanga e lo salutavano con meraviglia, sovente ricambiati da un’alzata del braccio. Quando, ormai anziano, seguiva il Giro d’Italia a bordo di auto scoperte, gli ci volevano ore per fendere la folla e arrivare sul percorso: chi voleva una firma su una maglia, chi lo invitava a cena, chi gli offriva una sigaretta, chi gli passava un infante. Era come viaggiare con il papa, dicevano gli autisti, e Gino non si stancava mai. Ricambiava così la passione che l’aveva strappato alla miseria della famiglia d’origine e restituiva in rispetto l’ammirazione che gli tributavano legioni di tifosi: prese il via in 988 corse e si ritirò solo 28 volte, perché non voleva deludere chi si era alzato presto per incitarlo. Gli piaceva tirar tardi con un Chianti e un mazzo di carte, mentre gli astanti erano rapiti dai suoi racconti di leggenda. Taceva solo sul suo ruolo di salvatore di centinaia di vite, che infine confidò al figlio Andrea, dietro promessa di non rivelare il segreto.
A tredici anni dalla morte, nel settembre 2013, fu dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, il memoriale israeliano delle vittime dell’Olocausto. Anche se fosse stato in vita, c’è da scommettere che non avrebbe cambiato idea sulla sua destinazione ultraterrena: «Quando verrà il mio turno, andrò in purgatorio, ma siccome vo forte in salita, in paradiso ci arrivo presto!».

NOTIZIA DEL CONVEGNO DI EMPOLI
Il 27 gennaio 2017, all’ex convento degli Agostiniani di Empoli, Gino Bartali sarà al centro di un incontro organizzato dall’Amministrazione comunale per le celebrazioni della “Giornata della memoria”. Chi scrive, intervisterà Andrea Bresci, amico del campione e soprattutto artefice del Museo del Ciclismo “Gino Bartali” (http://www.ciclomuseo-bartali.it/web/), e Giancarlo Brocci, autore di “Bartali, il mito oscurato” e, a più mani, di “Gino Bartali, 100 anni di leggenda”, nonché ideatore e patron dell’Eroica, l’ormai celeberrima corsa che si svolge sulle strade bianche senesi. Sarà l’occasione per rievocare anche il sensazionale Tour de France del 1948, conquistato dal corridore fiorentino con un’insperata rimonta, mentre Palmiro Togliatti, segretario del PCI, giaceva in un letto d’ospedale dopo che lo studente Antonio Pallante gli aveva sparato all’uscita di Montecitorio: allora si disse che il successo di Bartali, raggiunto in Francia da una telefonata del presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che lo esortava a fare il possibile per vincere, aveva contribuito a rasserenare gli animi e a sopire gli spiriti insurrezionali che l’attentato aveva suscitato fra i militanti comunisti.