Quanti dei nostri lettori attuali sanno chi era Gino Vermicelli? Credo pochi, per ovvie ragioni anagrafiche: è morto nel ’98, poco dopo gli anni in cui sono nati i ventenni di oggi. Per questo è stata importante la giornata che i (tanti) nostri compagni di Verbania, insieme a Anpi e Cgil, gli hanno dedicato sabato scorso, una bella ricostruzione della vita di Gino, nella Sala della Casa della Resistenza (gremitissima, più di 200 persone) intitolata al comandante Beltrami, alle pareti i pannelli dedicati ciascuno a una delle brigate partigiane che operarono in questa zona affacciata sul lago Maggiore, così forti e così numerose da arrivare, nell’autunno del ’44, persino a proclamare, e a far vivere per qualche mese, la Repubblica della Val d’Ossola. Mi sarebbe davvero piaciuto che avessero potuto partecipare da tutt’Italia.

 

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Gino Vermicelli aveva combattuto nella battaglia di Megolo dove praticamente l’intera formazione partigiana – esaurite le poche loro armi – fu annientata dai tedeschi. Fra i morti il comandante Beltrami, e anche il diciassettenne Gaspare Pajetta. Gino si salvò e divenne commissario politico della brigata Rocco comandata da Aldo Aniasi (in seguito sindaco socialista di Milano), combattente in questa guerra straordinaria che, a sentirla ri-raccontare, ci si stupisce ogni volta per la sua temerarietà, una sfida che poté esser vinta solo perché attorno ai reparti militari si mobilitò quella che giustamente lo storico Roberto Battaglia chiamò «società partigiana»: la comunità tutta, che in quegli anni tremendi consentì di fondare dal basso uno stato decente quale in Italia non c’era mai stato. E poi di darsi quella Costituzione per cui ci stiamo ancora oggi battendo.

Gino era diventato partigiano tornando dalla Francia dove era dovuto emigrare da bambino, nel dopoguerra divenne un dirigente di primo piano del Partito comunista italiano.
Qui a Verbania (ne ha raccontato con ironia Gian Carlo Grasso, a suo tempo consigliere comunale del Pdup),ma anche ne ha riferito il siciliano Rino Romano – per alcuni anni fra Agrigento e Corleone, dove il partito lo aveva mandato ad aiutare i compagni meridionali nella nuova guerra contro mafia e polizia.
Potete immaginarvi quale importanza abbia avuto per il Manifesto che un personaggio del suo prestigio scegliesse nel 1970 di lasciare il Pci e venire con noi. Fu nel primo comitato direttivo del Manifesto-Movimento Organizzato e ogni settimana scendeva da Verbania a Roma per darci il suo coraggio e la sua grande saggezza.

L’incontro con lui fu merito di uno dei primi collettivi operai-studenti che si avvicinarono al Manifesto, quello della Montefibre-Rhodiatoce di Pallanza, una delle fabbriche di avanguardia nelle lotte dei primi anni ’70.

Il primo intervento al convegno è stato di un altro personaggio storico de Il Manifesto, Lidia Menapace, che da queste parti è nata ed è qui che ha fatto la Resistenza nelle formazioni cattoliche. Di anni ne ha ormai 92, ma nei 3 giorni precedenti a questo incontro è riuscita ad andare a Catania, poi a tornare nella città dove vive, Bolzano, per un’iniziativa cui non poteva mancare, per ridiscendere a Verbania l’indomani.

Dopo Lidia le altre testimonianze: di Begozzi, che è stato uno degli autori di una lunghissima intervista a Gino Vermicelli – tutta la sua vita – pubblicata nel libro (prefazione di Valentino Parlato e molte altre interviste di Loris Campetti): Babeuf, Togliatti e gli altri. Babeuf perché Viva Babeuf era il titolo del romanzo semiautobiografico che Gino scrisse nell’ ’84, prefazione questa volta di Rossana ed edito dalla Cooperativa il Manifesto anni ’80. Due volumi che vorrei fossero ristampati perché di straordinario interesse. Non solo storico, anche letterario, come ha spiegato il giovane critico Erminio Ferrari.

A parlare della lotta operaia Carlo Alberganti, da sempre il nostro principale riferimento nel novarese, nel ’70 segretario della Camera del Lavoro di Verbania, costretto a un anno di latitanza perché condannato per blocchi stradali e altre pretese violenze commesse nel corso degli scioperi.

Difficile in poche righe dar conto di cosa sia stato Gino Vermicelli. Ma forse basta a capirne lo spirito (e l’intelligenza politica) questo brano di un suo scritto: «Sulla Resistenza si è scritto molto, qualche volta bene, ma a volte malamente…Se leggendo la nostra storia i giovani ne ricavassero la sensazione che allora esistevano degli uomini buoni, generosi, immacolati, in lotta contro il male, non ne ricaverebbero nessun insegnamento e nessuna speranza….Invece la storia non è stata quella. Il trasformare i residui dell’esercito italiano in una nuova forza armata è stato un travaglio complesso e pieno di contraddizioni. Alti e bassi.

Sconfitte e vittorie. Noi quel travaglio lo abbiamo vissuto, e ne siamo usciti abbastanza bene….Tutto ciò è stato costruito con fatica, superando ogni giorno “una grana”, ma riuscendo a far prevalere pian piano le tendenze migliori. Se riusciremo a raccontare queste cose potremo destare qualche interesse».

Durante il convegno mi è tornata alla mente la frase che ha accompagnato la campagna elettorale di Virginia Raggi: «Se c’è corruzione e le cose vanno male a Roma è colpa della politica».

Sappiamo che è vero il contrario: è per via della sparizione della politica.

Ma certo bisognerebbe spiegare che la politica di cui parliamo è quella esercitata da compagni come Gino Vermicelli, che al termine della sua ultima biografia, scrive di sé: «Apicoltore».