E così dopo 162 giorni di annunci roboanti e false illusioni, spot elettorali e bugie colossali, all’alba di ieri all’orizzonte del porto, d’un tratto, è apparsa la Cape Ray, la nave della flotta della marina militare statunitense su cui dovrà essere trasbordato l’arsenale chimico siriano. L’imbarcazione è entrata trainata da due rimorchiatori e scortata da alcune motovedette della guardia costiera.

La Cape Ray ha superato le gru ed è stata ormeggiata. Sulla nave saranno trasbordate, a partire da oggi, le armi chimiche sottratte alla Siria e trasportate verso il Tirreno calabrese a bordo della danese Ark Futura. Intorno all’hub gioiese è spuntata l’immancabile zona rossa: transito off limits nel raggio di un chilometro. L’isolamento dell’area verrà garantito da centinaia di poliziotti, carabinieri e agenti di polizia locale. Sono stati previsti decine di blocchi per il traffico veicolare di tutte le strade di accesso all’area. Nessuno potrà accedervi senza specifiche autorizzazioni. Sul lato mare lo scalo verrà presidiato da mezzi della marina militare e anche da gruppi di subacquei che stazioneranno per tutta la durata delle operazioni. Questo per la sicurezza militare.

Altra storia per la sicurezza civile e delle maestranze, in particolare. Questa è la nota raccapricciante. Ci si affida più alla buona sorte che a un’organizzazione che carente è dir poco. Perché, intanto, questo è un porto commerciale e non militare. Non ha mai trattato sostanze così pericolose, in operazioni tanto complesse quanto delicate. Altro sito sarebbe stato più idoneo, ad esempio Civitavecchia, che ha un reparto adibito allo smantellamento degli armamenti dell’esercito. Oppure Genova. Ma non certo questo lembo di Calabria assolutamente inadatto a gestire eventuali emergenze da contaminazione. Gli ospedali non hanno camere sterili, il personale medico paramedico non è addestrato a fronteggiare calamità. «Perché non è stata coinvolta la scuola Ncbr (Nucleo chimico e batteriologico) di Rieti?» si infervorano gli attivisti dei comitati. E ancora mancano ossime e atropina, gli antidoti all’iprite, la sostanza chimica più minacciosa, non c’è alcuna camera iperbarica per ustionati da iprite. L’ospedale più vicino, quello di Polistena, ha soltanto un anestesista e una manciata di camere di ventilazione.

Nelle ultime settimane si è rasentato il ridicolo con esercitazioni, per così dire, di fantasia visto che i portuali sono stati tenuti all’oscuro su quali fossero tutte le sostanze presenti sulle navi. Peraltro, il sarin, l’altro gas chimico, insieme all’iprite, di cui si conosce l’alto rischio, agisce in pochi minuti e si può morire rapidamente se non si interviene in modo deciso. Il più vicino Dea (il punto di trattamento delle emergenze) è sempre a Polistena, ma mancano adeguate camere di decontaminazione, e quelle poche che sono state inviate non sono mai state testate. «E’ sufficiente una sola persona contaminata a compromettere un intero Dea» sostengono i pacifisti.
Ieri hanno manifestato a piazza Nunziante, cuore di San Ferdinando. Anche per sfatare la litania, veicolata ad arte da politici, sindacalisti confederali, imprenditori e giornalisti embedded. Ovvero che si tratti di «un’operazione di pace che porterà benessere e prosperità». Rispondono i portuali del Sul: «L’unica ricaduta sull’economia del territorio saranno i 600 militari che mangeranno nelle pizzerie…». E sul carattere “pacifista” dell’operazione è meglio stendere un velo pietoso. «Questa è tutto tranne che una missione di pace – sbotta Pino Romeo di Sos Mediterraneo – la militarizzazione del porto di Gioia è legata a un filo unico che unirà Gaeta al Muos di Niscemi. Questa operazione manu militari fatta in violazione della normativa interna, internazionale e persino del buon senso, è un brutto precedente che deve far riflettere». Intanto, la domanda che gira in piazza è solo una: «E se qualcosa andasse storto?».