Giorgio Albertazzi è morto ieri nella sua casa in Maremma. Era nato a Fiesole nel 1923, e quindi avrebbe compiuto nel prossimo agosto 93 anni. Non è stato solo un «interprete», ma spesso anche una figura pubblica, cui piaceva intervenire ed emergere nella vita del paese, anche a rischio di attirarsi qualche discredito. Come nei «lunghi» anni in cui ha avuto la direzione del Teatro di Roma, assai discussa ma personalmente riconfermata dal sindaco Walter Veltroni, benché la sua candidatura fosse stata a suo tempo imposta dalla destra. O ancora più clamorosamente, una trentina d’anni fa, quando le discussioni sul fascismo costituivano un argomento di massa, e lui con malcelata vanità continuò a vantarsi che all’epoca della repubblica di Salò, giovane ufficiale del governo fascista, aveva ucciso un partigiano confesso, dalle parti di Arezzo.

Non nascose mai neanche il debole che aveva per le donne: moltissime di cui è stato compagno e maestro, da Bianca Toccafondi a Anna Proclemer, fino a platoniche passioni che hanno tenuto a battesimo attrici del calibro di Elisabetta Pozzi (più incerto il rapporto con le giovani «assistenti» di cui sempre ha continuato a circondarsi, e con le quali amava giocare in pubblico a «mamma e figlio»).

Sul palcoscenico per fortuna era stato diverso, almeno fino a qualche lustro fa, quando bello e prestante, era sicuramente uno degli attori più amati dal pubblico: innanzitutto a teatro, ma ancor più in televisione, dove infilò fin dagli anni 60 una serie di formidabili successi di audience negli sceneggiati in cui amava immedesimarsi (oltre che in pedagogiche carrellate letterarie come Il novelliere). Fu il sommo poeta nella Vita di Dante, ove Beatrice era una quattordicenne Loretta Goggi, ma anche un indimenticabile dottor Jekyll da brivido. Al cinema fu una vera apparizione, nel 1961, nel bellissimo L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais. Ma è a teatro che certo ha dato il meglio di sé: ha interpretato tutti i ruoli pensabili, dalle prime creazioni, quelle ancora memorabili, di uno Zeffirelli che da scenografo di Visconti si avvicinava alla regia, fino a una iperproduttività che finiva per mangiarsi anche la regia di altri.

È successo con Maurizio Scaparro che per lui inventò, nella villa Adriana di Tivoli, le commoventi Memorie di Adriano dalla Yourcenar, mettendogli intorno il ballerino asiatico Eric Vu An per Antinoo, e una melodiosa maga/narratrice come Maria Carta. Albertazzi ne ha fatto un personale «cavallo di battaglia», che ha continuato a portare in giro come monologo fino a qualche mese fa.

Rimase volentieri arroccato alla poltrona di direttore del Teatro di Roma. Il povero presidente Forlenza fu costretto a coprire tutti gli spazi di cui lui non si occupava; Giorgio Barberio Corsetti non riuscì ad ottenere la responsabilità dello spazio dell’India; ma Albertazzi ottenne di lavorare ancora con i registi massimi. Luca Ronconi preparò per lui e Anna Proclemer le memorie erotiche di Léautaud e della sua amante, lanciandoli ad alta velocità su vellutate poltrone a motore, così che sfrecciando potessero sibilarsi vere e corpose oscenità. Massimo Castri invece riesumò per lui, e su di lui, l’ultimo testo di Luigi Pirandello, praticamente mai rappresentato, Quando si è qualcuno. Ma lui, nonostante l’auricolare, non amava quel ruolo di grande disilluso, e offriva spesso smorfie al pubblico invece delle battute pirandelliane. E perfino quando ottenne l’onore, solo lui, di recitare con Antonio Calenda nel Giulio Cesare shakespeariano in un teatro appositamente costruito sul fianco del Colosseo, seminò ad un tratto il panico tra palcoscenico e platea, ma quella volta la colpa era di una colica improvvisa.

L’ultimo grande regalo glielo ha fatto la Rai, in una sorta di par condicio cultural fondativa per cui è stata costituita la coppia, innaturale quanto impari, tra lui e Dario Fo, come maestri a puntate alterne della grande storia del teatro e dell’arte nazionali. Ma l’unica cosa comune (o quasi) restava l’età, non certo la potenza affabulatoria e di contenuti. Albertazzi è rimasto fino alla fine un «mattatore», gemello gentile e fine dicitore rispetto al ruvido fascino di Gassman e all’ipnotico delirio onirico di Carmelo Bene, ma tutti in grado di inchiodare le platee. E per questo, si sa, ogni freccia al proprio arco risulta buona.