I mutamenti nella produzione di news e nella professione giornalistica conseguenti all’evoluzione tecnologica e culturale sono da anni al centro dell’attenzione degli studiosi. Come si può intuire, si tratta di un campo di studio estremamente complesso e articolato.

Nonostante ciò, è possibile individuare due principali filoni di ricerca. Da un lato, vi è il filone che studia come i social media hanno e stanno ancora cambiando il giornalismo, soprattutto sul fronte della definizione di giornalismo e delle sue principali norme (Bruns, Highfield, 2012; Carlson, Lewis, 2015; Newman, 2011; Newman, Dutton, Blank, 2012). Dall’altro, vi è il filone che indaga come i giornalisti si sono adattati ai social media.

Questo filone si articola, a sua volta, in due campi specifici. Da un lato, vi sono ricerche che hanno preso in considerazione l’uso di Twitter da parte di alcuni giornalisti in determinate circostanze, come Andy Carvin durante le vicende tunisine ed egiziane (Hermida, Lewis, Zamith, 2014) o Paul Lewis durante gli scontri dell’agosto 2011 in UK. Dall’altro, vi sono ricerche focalizzate sull’uso di Twitter nell’attività quotidiana dei giornalisti.

L’indagine «Giornalisti in mezzo al guado. Norme e pratiche alla prova di Twitter», la prima condotta in Italia da Rita Marchetti, professoressa presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Perugia dove insegna Teorie e tecniche dei media digitali, e Sara Bentivegna, professoressa di Comunicazione Politica presso l’Università Sapienza di Roma , ha preso in esame i giornalisti dei principali quotidiani nazionali (Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore, L’Unità, Il Fatto quotidiano, il manifesto, Il Foglio, Il Giornale, Libero, Il Messaggero), agenzie stampa (Ansa, Adnkronos), TV news (Tg1, Tg2, Tg3, Tg4, Tg5, Studio Aperto, TgLa7 , SkyTg24, RaiNews24, TGCOM24) e testate online (Fanpage, Huffington Post, Il Post, Lettera43, Linkiesta).

Il pdf qui.

Mediante l’analisi dell’interpretazione della transparency, del gatekeeping e dell’audience engagement – vale a dire alcune delle norme e pratiche proprie della cultura giornalistica e della cultura partecipativa dei media digitali – sono state ricostruite le modalità di adattamento di 1.202 giornalisti alla piattaforma per un totale di 203.736 tweet analizzati.

Ne esce un quadro ambivalente: «giornalisti in mezzo al guado» fra obiettivi di promozione e reinterpretazione della funzione di gatekeeper.

Lo studio ha individuato che circa il 50% dei tweet contiene link. Ciò vuol dire che, in Italia, un tweet su due pubblicato da un giornalista contiene un link. Il ricorso al link è maggiore nei tweet pubblicati dai giornalisti che lavorano presso le digital news organizations e i national newspaper.

Di questi, il 36% dei link rimanda a contenuti pubblicati da altri colleghi della stessa testata per la quale lavora il giornalista, il 17,6% a contenuti del giornalista stesso pubblicati nella testata e il 7,3% a contenuti pubblicati su altre piattaforme gestite dal giornalista stesso (blog, pagina Facebook, etc.). La somma dei tre valori sfiora il 60%: un dato che testimonia al di là di ogni dubbio come non si sia in presenza di un obiettivo di transparency ma di personal branding o di organizational branding.

Un’ulteriore conferma dell’autoreferenzialità del mondo giornalistico, già emersa per il contesto italiano (Splendore, Caliandro, Airoldi, 2016) e per quello statunitense (Lawrence et al. 2014; Molyneux, 2014).

E per quanto riguarda le testate, i newsbrand, com’è l’utilizzo di Twitter? Per rispondere a questa domanda, grazie ad un tool ad hoc, abbiamo analizzato i profili Twitter delle 10 principali testate d’informazione per audience secondo i dati Audiweb del luglio 2016, gli ultimi disponibili alla data di redazione di questo articolo.

Emerge una elevata varianza nel numero di tweet, con Repubblica in testa con addirittura una media di 355 tweet/die e Il Sole24Ore e Citynews (il network di informazione locale) a chiudere la particolare classifica con «soli» 39 tweet al giorno di media.

Soprattutto, dall’analisi svolta, si conferma, acutizzando il fenomeno, l’autoreferenzialità delle testate d’informazione del nostro Paese.

Infatti, se si escludono La Stampa e La Gazzetta dello Sport, tutte le testate prese in considerazione stanno di gran lunga sotto il 10% del totale come retweet e nessuna, in buona sostanza, risponde con le «replies» quasi per tutti a zero.

Inoltre, anche per quei newsbrand «virtuosi», in realtà retweet e risposte sono indirizzate a giornalisti della testata stessa o a personaggi di interesse pubblico. Emerge infine come per quasi tutti vi siano sistemi di automazione [dlvr.it il più usato] che «sparano» in automatico i tweet alla pubblicazione di un articolo dal proprio sito web.

I dati raccolti insomma indicano la presenza di una forma di «light engagement», ad essere generosi, con l’audience, ovvero un timido e poco convinto tentativo di adattamento della cultura partecipativa dei social media alla pratica giornalistica. Un tentativo di «rappresentare» più che di «realizzare» un’interazione diretta con gli utenti dei social media. Non ci siamo, non ci siamo proprio.