Vogliamo parlare dell’idiozia di avere tutti una catenella al collo a cui è attaccato un badge di plastica? Non ci fa sentire immediatamente degli alienati ingranaggi massificati di un sistema che ha fatto il suo tempo? Beh, a me si, assai.
Così se si va un po’ fuori zona, nei viali dietro il lungomare Marconi, nei vialetti dietro il Casinò, ci si può riconoscere da queste sciocche e bruttissime medagliette al collo, tipiche degli animali da compagnia: ecco, anche lui è uno di quelli che si occupa di quelle cose futili – immagini che corrono su uno schermo inseguendo la realtà – e adesso, seduto al bar più chic, individuo a fare colazione colui con cui ho passato la notte(accanto, in un letto singolo gemello): un tipo tranquillo, un giovane fino a meno di 24 ore fa per me sconosciuto simpatico magro barbuto (che sia un hipster?).

 

 

Passa il sosia di Crialese, sto per salutarlo e all’ultimo, quando sto per aprire la bocca, mi accorgo che non è lui. Evito la gaffe e vado a vedere il film di Marra, non vedo come potrei non farlo. Vincenzo non lo conoscevo quasi l’estate di 7 anni fa, c’eravamo visti di sicuro a qualche festa in giro, amici comuni, parlati vis à vis poco e male. Quell’agosto gravitavamo entrambi intorno a Campo de’ Fiori, era caldo, nei passeggini i pupi, assolutamente coetanei , sudavano copiosamente nonostante la semi nudità. «Stiamo per andare in campagna, volete venire con noi?» mi viene naturale. E ci ritroviamo per qualche giorno insieme, doppia coppia con neonato di sei mesi: il ritratto della felicità allo specchio. Cene, poppate, pappine, conoscenza e scambio di teorie e pratiche. Giorni felici. Di lì a poco, invece, nella loro quotidianità qualcosa è precipitato. E il trauma di questa storia lui ha voluto drammatizzarlo in una pellicola (La prima luce, alle Giornate degli Autori). Autobiografia dolorosa.

 

 

Subito dopo film cinese. Durata 280 minuti, ovvero 4 ore e 40 di film. Jia. Titolo tradotto in italiano La famiglia. Già mi piace. Sfido chiunque a dirmi che ha visto ogni singolo fotogramma senza mai neppure un istante chiudere gli occhi. Ecco la vera bellezza dei festival, sottoporre il corpo, soprattutto lo stomaco, a maratone del genere. Unica breve pausa alla toilette, dove mi ritrovo a cicalare con donne piuttosto agé del sentimento amoroso per la prole). L’amore filiale cinese è rappresentato in maniera così diversa da quello indiano, da quello italiano, da quello americano. È cauto e delicato come un fiore di cactus che dura un giorno solo, è pacato e duraturo come la certezza che ogni mattina il sole risorgerà ad est. Penso amaramente alla quinta persona più cara della mia vita e quanto avrebbe amato questo film, che purtroppo non vedrà. All’uscita, con una fame ormai urlante, mi getto alla ricerca di un supermercato. Errore. Mai andare a far la spesa affamati.

 

 

Cammino a lungo invano. Sono ormai finita nel limbo degli indecisi, andare avanti o tornare indietro. A un passo dal considerare l’intera operazione un gesto kamikaze in queste condizioni, intravedo un’insegna: sono arrivata a destinazione. Di ritorno, con le buste in entrambe le mani, ripenso al fatto che un anno fa ho già percorso questa medesima strada di notte in compagnia e ricordo di averla trovata assai più breve e più divertente di stavolta. Ingurgito qualche sostanza commestibile e riparto verso il Palazzo del Cinema. La marcia non è che all’inizio. (fabianasargentini@alice.it)