All’attacco per eliminare l’articolo 18 per i dipendenti pubblici. In tempi di riforme costituzionali, uno più uno meno, che conta. Se Renzi ne vuole cambiare 47 in un colpo, che vuoi che sia cambiare l’articolo 3 e il 97 sui pubblici uffici, l’imparzialità della pubblica amministrazione? E poi, lo statale presunto fannullone è sempre un obiettivo facile da colpire. Un pungiball. Non reagisce, incassa. «Via l’articolo 18. Via il sistema pensionistico retributivo. Via la Pa che secreta gli atti. Via i vitalizi ai parlamentari. Via una scuola che non si alterna con il lavoro ma con gli scioperi. Via un fisco che tassa i dipendenti anche quando non si fanno profitti. Via il rigore di Bruxelles».

Agenda neoliberista, condita con luoghi comuni sulla professionalizzazione dell’istruzione e i tirocini (gratis) in azienda degli adolescenti, oltre a una spruzzata di anti-austerity d’ordinanza. È il programma del presidente di Confindustria «giovani» Marco Gay (nella foto), letto ieri al 46° assise dell’organizzazione a Santa Maria Ligure, presente Matteo Renzi da Palazzo Chigi. È successo il giorno dopo la decisione della Cassazione di escludere i lavoratori pubblici dagli effetti della riforma Fornero e del Jobs Act sul regime dei licenziamenti senza giusta causa. E la platea ha applaudito. Nel governo però le idee divergono.

Se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ritiene che l’articolo 18 per i licenziamenti nel pubblico impiego, sia una norma che «appartiene al passato», di parere opposto è il ministro direttamente interessato alla querelle che appassiona neoliberisti e giovani-vecchi imprenditori: Marianna Madia, ministro della funzione pubblica, che ha la grana dei decreti da applicare della riforma della P.A. «Con Marco Gay sono d’accordo su tante cose, non su questo» ha risposto dal palco ligure Madia: «Nel pubblico i requisiti per licenziare dovrebbero essere ancora più rigidi che nel privato. Grazie alle norme del Governo Renzi ora chi sbaglia viene licenziato», ha aggiunto. «L’imprenditore privato ragiona con i suoi soldi, il pubblico invece deve tutelare chi ha fatto un concorso e viene licenziato magari per un pregiudizio politico. E deve tutelare il bene pubblico perché l’indennizzo al dipendente pubblico licenziato ingiustamente ricadrebbe sulla collettività».

Dal ragionamento è esclusa l’idea che il lavoratore sia titolare di diritti universali, sociali, del lavoro. Del resto il Jobs Act ha eliminato il totem dell’articolo 18 per i lavoratori privati, pochi dei quali lo aqvevano visto in precedenza. Diritti sociali non ne ha istituito nessuno. Il fatto, poi, che l’imprenditore rischi i suoi soldi non è poi tanto vero, visto che il governo ne ha spostati parecchi sotto il suo naso, e tutti pubblici. Infine, il licenziamento dello statale è considerato un costo. Vai mai a pensare, invece, che bisognerebbe assumerne a migliaia, restituendo diritti a chi li ha acquisiti, competenze e una cura della collettività che non è più considerato un valore sociale.

Renzi ha ribadito la regola generale del suo governo: «L’impresa non deve sentire lo Stato come un ostacolo». E infatti gli ha regalato 14-22 miliardi di euro in sgravi contributivi senza produrre un aumento significativo di nuovi occupati. Realtà negata dall’interessato che ha ribadito il mantra delle ultime ore: «L’abolizione dell’articolo 18 ha creato 450 mila posti di lavoro. Se a Landini non piace, pazienza». Non è vero: il conto parte dal febbraio 2014, e non dal 7 marzo 2015 quando è entrato in vigore il Jobs Act. Gli assunti sono 242 mila, in declino. Le imprese assumono, poco, perché hanno i soldi pubblici da Renzi. Poi potranno anche licenziare. Hanno tempo fino al 2018.