Nella Giornata internazionale per le vittime di tortura la mente non può che andare a Giulio Regeni e alle parole che gli egiziani da allora ripetono: «Giulio è stato ammazzato come un egiziano». Perché di tortura e detenzione in Egitto si muore continuamente. Si moriva sotto Mubarak, si muore – se possibile con più frequenza – sotto al-Sisi.

Per questo il regime mostra nervosismo per i riflettori che Amnesty International mantiene accesi: il portavoce del Ministero degli Esteri egiziano Abu Zeid ha parlato di provocazione dopo l’annuncio della tweet action di ieri e oggi per chiedere verità per Giulio. Si tratta – dice Abu Zeid – «di un nuovo modo di colpire l’Egitto» da parte di un’organizzazione, Amnesty, «che non è neutrale né professionale».

Bilanci è difficile darne. Il Nadeem Center, organizzazione che da 20 anni documenta i casi di tortura e offre assistenza psicologica alle vittime, ci prova: solo nel 2015 ha registrato 1.176 casi di tortura e 500 morti. Ma se si guarda ai numeri esorbitanti di prigionieri politici è facile immaginare che le vittime siano molte di più: 41mila detenuti per ragioni politiche, questo il bilancio – sempre al ribasso – che l’organizzazione egiziana Arabic Network for Human Rights Information è riuscita a calcolare.

Un intreccio mortale: sparizioni forzate, prigionieri politici, torture sistematiche. I racconti dei sopravvissuti portano dritti all’inferno, dentro celle sporche e affollate, lontane e dimenticate, dove vengono ammassati attivisti, avvocati, sostenitori dei Fratelli Musulmani, uomini sospettati di legami con gruppi islamisti. «È peggio di qualsiasi cosa si possa immaginare», raccontava un anno fa al’agenzia The New Arab Abdullah Ahmed, 22 anni, studente di ingegneria accusato di affiliazione allo Stato Islamico. «Le violazioni sono disumane, elettroshock ai genitali, abusi sessuali, waterboarding, prigionieri appesi per gambe e braccia, calci in faccia. Gli animali selvatici trattano i loro simili molto meglio di così».

È la quotidianità nelle carceri d’Egitto. Al-Azouly è una di queste. Un buco nero, la prigione più temuta da sempre, chiusa dentro la base militare di Al Galaa ad Ismailia, 130 km a nord-est del Cairo, che dal 2013 ha fagocitato la ribellione di Fratelli Musulmani, studenti e attivisti alla repressione di Stato. Qui in migliaia sono scomparsi, nascosti al resto del paese e al suo sistema legale. Chi esce da al-Azouly prova a raccontare quel girone infernale: i prigionieri subiscono scosse elettriche e pestaggi di routine, vengono appesi per ore, costretti a rilasciare confessioni di ogni tipo.

«Ufficialmente tu non sei lì», dice Ayman al The Guardian. Ayman è finito a al-Azouly nel 2013 ed è uno dei pochi fortunati ad esserne usciti. «Non ci sono documenti che attestino la tua presenza là. Se muori a al-Azouly nessuno lo saprà mai».

La procedura è per molti la stessa: arrestati con pochissime prove a carico, vengono torturati con regolarità nel famigerato Edificio S-1, fino a quando non sputano le informazioni che i carcerieri vogliono sentire. «Moltissimi ad al-Azouly sono stati arrestati in modo indiscriminato – spiega Mohammed Elmessiry, ricercatore di Amnesty – Poi i servizi segreti li torturano fino a quando non raccolgono quello che serve per dimostrare la partecipazione a violenze».

Così giustificano la detenzione che comincia allo stesso modo: il prigioniero è costretto a passare per “la cerimonia di benvenuto”, un pestaggio di gruppo con bastoni e tubi che dura fino a quando il detenuto riesce a raggiungere la cella dove scomparirà, insieme ad altri 20-25 prigionieri.

Prigioni come al-Azouly sono gestite dai servizi segreti militari, mentre l’intelligence del Ministero degli Interni opera in centri legati alla polizia. Il percorso è simile: le confessioni – vere o false che siano – vengono estorte dall’esercito e poi confermate di fronte a procuratori civili. Solo allora si finisce in un carcere civile, come la nota prigione della capitale, Scorpion, dove le torture sono meno sistematiche perché legali e familiari possono fare visita ai detenuti.

Una legge contro la tortura non esiste, sebbene l’Egitto sia firmatario della Convenzione Onu del 1984. La società civile tenta da tempo di sottopore un disegno di legge al parlamento, senza successo. L’avvocato el-Borai e due giudici, Raouf e Al-Gabbar, ne hanno redatto uno che propone 25 anni di carcere ai responsabili di torture. Per questo sono sotto inchiesta, accusati di attività politica illegale.