Nel giorno dell’arrivo degli investigatori egiziani al Cairo, una potenziale bomba poteva esplodere tra Roma e Il Cairo: una lettera anonima a Repubblica chiama in causa i vertici del governo egiziano. Il presidente al-Sisi e il ministro degli Interni Ghaffar sapevano e hanno occultato l’omicidio Regeni.

Ieri l’agenzia indipendente Mada Masr, l’unica tra i media egiziani a riportare le rivelazioni della gola profonda, ha mosso alcuni dubbi: un post quasi identico era stato pubblicato sull’account Facebook dell’ex poliziotto Omar Afify a febbraio. Afify, fuggito negli Usa, aveva preso parte alla rivoluzione di Piazza Tahrir per poi assumere posizioni molto critiche nei confronti di al-Sisi.

Continuano così ad accavallarsi opinioni e teorie. Di certo il caso Regeni ha avuto un effetto sull’opinione pubblica egiziana: ha svelato le contraddizioni e le divisioni interne al regime, ai servizi segreti e alla stampa.

Ne abbiamo parlato con Amro Ali, giornalista e ricercatore egiziano per l’agenzia indipendente Mada Masr.

Che tipo di copertura danno i media mainstream egiziani del caso di Giulio Regeni? Una posizione critica o una mera accettazione della versione governativa?

Già prima della morte di Giulio la luna di miele tra la stampa mainstream e il governo di al-Sisi stava terminando: dallo scorso anno i media, anche quelli statali, sono diventati via via più critici, pur restando vicini alle posizioni governative. Quello che hanno fatto a seguito della morte di Giulio è stato porre l’attenzione sull’aspetto umano e non su quello politico, sulla brutalità della sua uccisione, qualcosa di noto per l’egiziano medio ma che, riguardando uno straniero, è apparso strano. E questo ha spiegato la copertura data al suo omicidio. Ma se è vero che solo in pochi casi sono state tirate fuori teorie particolari, che Giulio fosse una spia o che fosse stato vittima dei Fratelli Musulmani, la colpa della stampa è quella di non scavare alla ricerca delle reali responsabilità.

Pochi giorni fa Mohamed Abdelhady Allam, direttore del governativo al-Ahram, ha però chiesto trasparenza per evitare conseguenze nelle relazioni con l’Italia, paragonando Giulio a Khaled Said.

L’editoriale di al-Ahram ha avuto un merito, all’interno: ricordare a tutti Khaled Said. Se l’anno scorso avessi chiesto a un egiziano di Khaled, ti avrebbe risposto che era un evento successo secoli fa. Se lo chiedi oggi, sembra a tutti che sia accaduto ieri. La portata internazionale del caso di Giulio ci ha riportato indietro al 2010.

[do action=”quote” autore=”Amro Ali”]La portata internazionale del caso di Giulio ci ha riportato indietro al 2010, ai tempi di piazza Tahrir.[/do]

Il direttore di Al-Ahram ha accantonato la sua linea pro-governativa per fare appello al governo e per avvertirlo, e questo passo va preso molto seriamente, proprio per la sua potenzialità interna.

Al contrario chi resta in silenzio è la sinistra egiziana, quella che appoggiò il golpe perché cacciava la Fratellanza Musulmana.

La scena politica egiziana non segue i canoni noti, liberali, conservatori, socialisti e così via. Quello che abbiamo scoperto dopo il 2013 è che la sinistra egiziana si sente prima di tutto anti-islamista.

È frammentata, polarizzata tra nasseriani, socialisti rivoluzionari, il Movimento 6 aprile, ma sullo sfondo resta una cultura politica sotto sviluppata: 60 anni di dittatura hanno distrutto il dibattito politico e quindi le posizioni politiche della sinistra.

Una simile divisione è riscontrabile nei servizi segreti? Eventuali rivalità interne possono aver condotto all’attuale situazione di caos?

I servizi segreti non sono un blocco monolitico ma estremamente frammentato tra poteri rivali istituzionalizzati. Abbiamo un Ministero della Difesa contro quello degli Interni che a sua volta contiene zone di ombra, personalità-ombra. Per questo non stupisce che il Ministero degli Interni non abbia saputo subito del caso Regeni o lo abbia scoperto solo nelle sue ultime fasi. I ministeri egiziani, dall’Educazione alla Salute, sono corpi complessi che lavorano per interessi propri, interni, e mai pubblici. Non funzionano come uno Stato normale. Il problema è che quello degli Interni dalla sua ha le pistole.

I riflettori accesi sullo Stato di polizia egiziano potrà avere effetti sulla repressione interna? Oppure, spente le luci, la macchina riprenderà ad operare come prima?

La repressione egiziana lavora meglio al buio. Quando c’è attenzione internazionale, emergono le divisioni interne, i falchi e le colombe, le rivalità nel governo. Stanno continuando a chiudere organizzazioni non governative e ad arrestare attivisti e voci critiche, ma la gente oggi respira un po’: sa di avere in mano uno specchio che riflette all’esterno la repressione quotidiana, alleviandola.

Cosa accadrà in futuro è difficile da prevedere, se il neoliberismo e le relazioni economiche prevarranno sugli abusi.

Oggi l’attuale crisi economica si scontra con il fattore umano, con l’impatto che hanno avuto le parole della madre di Regeni sia in Egitto che nel mondo. Difficile quindi fare previsioni perché Il Cairo non funziona secondo una logica autoritaria, ma dispotica: non esiste un’autorità della legge, qualsiasi essa sia. E noi egiziani diciamo: temi di più un regime debole di uno forte.