Abdelrahman Mansour parla a lungo, c’è tanto da raccontare da quel 3 luglio 2013 che definisce il «primo giorno di controrivoluzione». Il generale al-Sisi strappò il potere al governo eletto e, sorride ironico, «poi ha fatto sparire nelle carceri del paese 5 dei leader della rivoluzione di Tahrir con cui si fece fotografare nel 2011». Gli altri 5, ritratti nella stessa foto, sono scappati all’estero quando si riusciva ancora a farlo.

Mansour, blogger egiziano ora negli Stati Uniti (qui l’intervista apparsa ieri sul manifesto), ha parlato ieri nella sala stampa della Camera dei Deputati, accompagnato da Arci e Amnesty, impegnate da mesi in campagne per la verità sulla brutale morte di Giulio Regeni e per svelare la vera faccia del Cairo alleato italiano.

«Come egiziano non voglio che il caso di Giulio si chiuda senza verità – dice Mansour – Le autorità egiziane tengono in prigione Ahmed Abdallah e Maled Adly, due avvocati che hanno avuto a che fare con il caso. Sono in isolamento, senza accuse chiare. Perché tanti sforzi per coprire questo crimine? Non chiediamo un intervento dall’esterno, noi giovani egiziani possiamo fare da soli. Ma da fuori dovete alzare la voce contro il regime. L’Italia interrompa la fornitura di armi. E forse il sangue di Giulio e di tanti altri egiziani farà il miracolo: far cadere la dittatura».

Le richieste che vengono messe sul tavolo a 5 mesi dal ritrovamento del corpo di Giulio sono le stesse: «Dopo il richiamo dell’ambasciatore avevamo preso in parola il ministro Gentiloni che prometteva altre misure immediate – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia – Ma sembra che l’Italia senta di aver fatto il massimo. C’è ancora tanto da fare: sospendere tutte le forniture d’armi, fare chiarezza sui software di sorveglianza prima sospesi e poi di nuovo autorizzati; ribaltare il paradosso a livello internazionale per cui il paese isolato non è l’Egitto ma l’Italia».

E, aggiunge Noury, tenere aperta la porta al popolo egiziano schiacciato «nel tritacarne del regime»: «Vanno individuati dei meccanismi di protezione per gli egiziani che sanno qualcosa sulla morte di Giulio e che, pur non mancando di coraggio, non hanno modo di parlare. Aprendo l’ambasciata italiana, ad esempio, anche senza ambasciatore». Un’idea sostenuta dall’Arci, gli fa eco Raffaela Bollini dell’Ufficio Relazioni Internazionali: «Alcuni paesi del nord Europa lofanno già in altri paesi. È un modo concreto per tutelare gli attivisti e le persone a rischio».

E qui torna in ballo la questione principe, su cui da tempo preme la famiglia di Giulio: dichiarare l’Egitto paese non sicuro. Un passo dovuto ma che si scontra con un muro, quello della realpolitik di casa nostra. Ieri l’ennesimo esempio: dopo il voto favorevole del Senato all’Emendamento Regeni che sospende la fornitura (a titolo gratuito) dei pezzi di ricambio degli F16 al Cairo, la Commissione Esteri della Camera ha dato parere negativo su emendamento di Forza Italia e Lega Nord che chiedeva la cancellazione di quella sospensione.

Non dovrebbero esserci pericoli, spiega Erasmo Palazzotto, vice presidente della Commissione: «Il Decreto Missioni [di cui l’Emendamento Regeni è parte] sarà votato domani o dopodomani dalla Camera, è immodificabile, a causa dei tempi stretti non può tornare al Senato».

Insomma lo stop ai ricambi dovrebbe restare seppure il governo in Commissione abbia ribadito che l’Egitto è paese alleato. In tale stallo fare pressione è indispensabile, sia sull’Egitto che sull’Europa, che invece di sostenere Roma l’ha isolata tentando di sostituirla nei rapporti commerciali e strategici con Il Cairo.

La società civile fa la sua parte (il 25 e il 26 giugno, giorni della tweet action di Amnesty, l’hashtag #veritàpergiulio è stato primo in Italia e tra i primi 40 nel mondo), ma come dice l’Arci non basta: «Siamo stati in grado di non far chiudere il caso – dice Bollini – ma la verità è lontana. E in Egitto il giro di vite su voci indipendenti, attivisti e giornalisti si inasprisce».