Sergio Givone, filosofo e storico della filosofia, fine interprete di alcuni grandi testi della letteratura europea, scrittore, autore di un bellissimo romanzo d’esordio e di altre importanti prove narrative, ci sorprende e ci inquieta con un nuovo libro e un nuovo genere: Luce d’addio Dialoghi dell’amore ferito, Olschki (pp. VI-156, euro 15,00).
Titolo, sottotitolo e copertina catturano l’attenzione del lettore con messaggi diversi: il titolo annuncia il tema chiave che è quello della fine e del congedo, il sottotitolo spiega che si tratta di dialoghi di un amore ferito, mentre la copertina in bianco e nero affida a una celebre incisione di Dürer una delle più conturbanti rappresentazioni del rapporto tra amore e morte. Ma su copertina, titolo e incisione si tornerà più avanti.
Il libro comprende cinque dialoghi che rimandano ad altrettanti incontri, in parte avvenuti e in parte immaginati, tra grandi figure del passato; meglio sarebbe dire che comprende cinque atti unici con relative didascalie, dati documentali e note di chiusura con informazioni biografiche e storiche sui protagonisti principali. Di fatto i testi pertengono strutturalmente al genere teatrale, lungo un versante che si potrebbe dire, in senso lato, beckettiano. Si tratta comunque di qualcosa di diverso dal dialogo filosofico più tradizionale e insieme di qualcosa di nuovo nel panorama della letteratura teatrale italiana: nel senso che, se da un lato la forma dialogica appare funzionale alla ricerca etica ed estetica di Sergio Givone, dall’altro essa si esprime con la forza di una lingua nutrita di poesia che lascia germinare invenzioni e messaggi extra-filosofici. Proprio per questa loro natura i dialoghi-atti unici di Givone richiedono fortemente una messa in scena, postulano voci alte, scansione di enunciati e movimenti scenici a sostegno del processo di ascolto e di visione.
Il traduttore della Bibbia

Dei cinque dialoghi il primo (Eco di un’eco) vede incontrarsi il poeta latino Lucrezio e San Girolamo traduttore della Bibbia; il secondo (Al Rogo!) Cecco d’Ascoli, medico e filosofo arso sul rogo nel 1326 e il suo amico giudice Francesco da Barberino; il terzo (Che fare) mette in scena la visita di un ignoto professore a Kierkegaard, con epifania di Adorno; il quarto (E se la Madonna Sistina) reinventa la discussione tra Fëdor Dostoevskij e Ivan Turgenev davanti al Raffaello di Dresda; infine il quinto (Quando il silenzio è complice) porta a confronto Paul Celan e Martin Heidegger in un campo di sterminio.
Come si vede, si tratta di luoghi, tempi e figure diversissime accostate in lunghe appassionate discussioni sui massimi sistemi, e in particolare sul tema del nulla, del nichilismo, della giustizia, della religione e dell’arte che sono state la costante del lavoro di Sergio Givone. Non è però soltanto un ritorno in forma dialogica sul rovello di una vita, ma piuttosto un cambiamento di posizione dell’autore che sembra guardare ai suoi personaggi ex alto e come a distanza, indicando nella giustapposizione delle parti l’unica possibilità di articolare il processo di conoscenza.
Può forse esserne un esempio il dialogo irrisolvibile tra San Girolamo e il poeta Lucrezio. Il traduttore dei sacri testi che parla della colpa dell’essere e il pagano Lucrezio che crede nella vittoria del bene, restano su posizioni lontanissime. Lo stesso succede nel dialogo tra Dostoevskij e Turgenev davanti alla Madonna Sistina, ovvero davanti al quadro che ha accompagnato la nascita del Romanticismo tedesco e alimentato infinite discussioni da Wackenroder a Schlegel. Pur nella comune ammirazione per l’opera di Raffaello, i due scrittori si confrontano a lungo su posizioni opposte. Il grande indagatore delle profondità dell’io guarda oltre la superficie del quadro e pensa che gli occhi della madre e quelli del figlio siano aperti sull’orrore del destino che li aspetta; il secondo pensa invece che la Madonna e il Bambino, in posizione centrale e come sospesi sulle nuvole, siano semplicemente pronti a scendere dal cielo e ad entrare nella scena del mondo, da sempre pronti alla vita così com’è «povera, casuale, necessaria». Lo stesso avviene nel dialogo più inquietante del libro, che vede di fronte, in un lager, Martin Heidegger e Paul Celan. Qui la contrapposizione frontale è quasi insostenibile, mentre le parole di Celan sulla poesia e quelle di Etty Hillesum sul mistero della vita rendono davvero difficile pensare che la verità si manifesti, come si legge nell’introduzione, «dileguando e sottraendosi».
In tutti e cinque i dialoghi si ripetono gli stessi schemi oppositivi, si susseguono e si dispiegano affermazioni contraddittorie, acrobazie verbali e paradossi che spesso rendono problematico e teso l’ascolto. Tanto che, alla fine di ripetute letture, si ha l’impressione che Givone sia giunto a una soglia e a un momento drammatico della propria ricerca: che voglia dirci che la verità può essere afferrata solo come relazione oppositiva, come giustapposizione di parti che non hanno vita separata, come indecidibile sfida verbale. Che voglia guardare in faccia la finitezza e la potenza del nulla, la prossimità degli opposti, l’unità del vivente, l’identità paradossale di umano e divino. Fondatamente Arnaldo Pagnini ha parlato di recente di «ontologia della contraddizione».
Così il turbato lettore ripensa l’insieme e torna istintivamente all’inizio e all’incisione di Dürer in copertina, sulla quale pochi anni fa un illustre patologo aveva espresso la sua convinzione che «il grosso nodo che sporge dal giugulo della dama altro non sia che un aneurisma, luetico, che usura lo sterno e affiora alla superficie e che presto si romperà come ben sa la Morte, che irride da dietro un albero i due protagonisti ignari e illusi» (Giorgio Weber, Le voci della materia. Patologo tra gli artisti. II, Mauro Pagliai Editore, 2013). Non so se sia giusto leggere un libro sulla base della sua immagine di copertina e magari leggerla come suggerisce Weber, ma certo l’autore non è estraneo a quella che non è soltanto una felice scelta grafica, così come non lo era nelle copertine dei precedenti libri. Un profondo turbamento accompagna davvero l’intera lettura alla luce della sua copertina.
Il giudizio di Baldacci
Leggendo questi dialoghi ho pensato più volte alla prima prova narrativa di Givone, Favola delle cose ultime (1998), che aveva trovato un lettore e un recensore d’eccezione come Luigi Baldacci. Questi, proprio sulle pagine di «Alias» (30 marzo 2002) aveva fotografato molto bene la forza e il carattere quasi eccezionale di quel romanzo, dove proprio le cose ultime erano viste dalla posizione di un ragazzino innocente figlio della natura, della tradizione e della terra. Nella sua lucida recensione Baldacci aveva fissato la natura di quel libro e il posto di Givone tra filosofia e scrittura e sottolineato la fecondità di un incontro tra filosofia e poesia che nella nostra letteratura veniva a prodursi tanti anni dopo Leopardi.
Non saprei dire se Givone abbia più trovato la felicità e la leggerezza di quell’esordio narrativo, anche perché il libro di oggi è profondamente diverso da tutti i precedenti, tanto più denso, difficile e coraggioso, frutto del lavoro di una vita. Credo però di poter dire che la posizione di Givone tra filosofia e scrittura letteraria è rimasta quella fissata da Baldacci; che il libro di oggi si conferma tutto dentro l’orizzonte del nichilismo come esperienza decisiva del Novecento, e che in questa posizione l’autore rinuncia a ogni consolatorio autoinganno. Non rinuncia invece a continuare la sua lunga appassionata percussione sulle cose ultime, mostra di non temerle e di saper guardare all’essere come a un infinito tramonto inondato di luce. Sono diverse le frasi alle quali si sarebbe tentati di rinviare come a una sorta di sintesi del libro. Ne scelgo due tra le più significative. La prima è affidata a Paul Celan: «…voglio dire che la poesia, a differenza della filosofia, si prende cura dell’insignificante, dello smarrito, del perduto. Si china sul quasi nulla, non sul nulla». La seconda rimanda alla copertina ed è l’autore stesso che ce la porge, riprendendola dalla Vita Nuova (XXIII, 17-28) di Dante: «Morte, assai dolce ti tegno / tu dêi omai esser cosa gentile».