Nel caso Regeni tutto è sbagliato, scorretto e tragico. Ogni notizia potrebbe confondere, depistare e mischiare le carte. Ma una cosa è certa: l’unica voce che in Egitto si è levata fin qui per confermare le torture che il dottorando italiano ha subito è il capo della procura di Giza, Ahmed Nagy. Invece il capo del pool investigativo della polizia che sta seguendo il caso, Khaled Shalaby, per intenderci l’ufficiale che aveva subito derubricato l’omicidio Regeni come un incidente stradale, è stato condannato in primo grado nel 2003 per tortura dal tribunale di Alessandria, secondo gli attivisti Mona Seif e Ahmed Ragab.

Quindi un’ombra inquietante cade su tutte le indagini così come sull’effettiva collaborazione che le autorità egiziane possono fornire al team investigativo dei Ros che ha raggiunto l’Egitto da qualche giorno. Proprio nella città costiera i casi di sparizione forzata e tortura sono aumentati incredibilmente. In pochi giorni sarebbero almeno venti i casi di desaparecidos, secondo il sito indipendente Mada Masr che cita il Centro arabo africano per i diritti umani.

Gli inquirenti italiani al Cairo possono fare veramente poco. «Il file di Giulio Regeni è già insabbiato», si mormora negli ambienti delle opposizioni. E non bisogna parlarne troppo, bisogna coprire e cancellare. Ieri l’ambasciatore egiziano a Roma, Amr Helmy, aveva rimandato al mittente ogni accusa di arresto da parte della polizia, aggiungendo che le autorità egiziane non sono cosi «naif» da uccidere un giovane italiano e gettare via il suo corpo proprio nel giorno della visita del Ministro Guidi al Cairo. Quando è stato ritrovato il cadavere il 3 febbraio era in corso nella capitale egiziana una missione economica italiana, subito interrotta. Fin qui non ci sono segni concreti però da parte italiana che la vicenda avrà effetti seri sulle relazioni bilaterali con il Cairo.

I Ros sono stati in grado solo di smentire la pista della rapina e che nella riunione di qualche tempo fa a cui ha preso parte Giulio Regeni al Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), come riportato nel suo reportage pubblicato sul manifesto, fossero stati presenti elementi deviati dei Servizi egiziani. Ma non è sufficiente una singola riunione per poter smentire l’infiltrazione degli apparati di sicurezza dello Stato all’interno dei sindacati indipendenti.

È invece confermato dal quotidiano Masry al-Youm, giornale filogovernativo, che il cellulare scomparso di Giulio fosse intercettato. Gli investigatori egiziani hanno potuto ascoltare la voce del giovane in telefonate, avvenute prima del 25 gennaio. Secondo il giornale, 37 persone sarebbero già state arrestate perché sospettate dell’omicidio. Lo stesso quotidiano aveva diffuso ieri la notizia che Giulio fosse stato sequestrato nelle vicinanze della sua abitazione a Doqqi, dove per l’ultima volta sarebbe stata agganciata la cellula del suo cellulare, e non a Bab el-Louk nel centro del Cairo. Questa circostanza è difficile da confermare perché negli stessi giorni, a ridosso del quinto anniversario dalle rivolte del 2011, ben 5000 abitazioni sono state perquisite e decine di persone sono state prelevate in casa e arrestate.

Secondo Al Youm, Giulio Regeni sarebbe stato torturato e ucciso in un appartamento del centro città. Tuttavia, queste notizie bombardate in maniera sistematica sembrano un ulteriore tentativo di confermare la pista dell’arresto mirato e di scartare invece l’ipotesi dell’arresto sommario avvenuto all’interno di un assembramento. Si tratta quindi di ricostruzioni ancora tutte da verificare.

Sembra più in generale che con queste notizie di stampa si voglia allontanare il giovane da piazza Tahrir, come è stato fatto facendo ritrovare il cadavere a Giza, per escludere il movente dell’arresto sommario e accreditare la pista del prelevamento mirato di una «spia».