Per cosa votano davvero gli scozzesi? Per capire alcune delle ragioni alla base del referendum di oggi, si dovrebbe forse fare un giro nei quartieri popolari di quella che fu la capitale operaia della Scozia e che per certi versi rappresenta ora il lato oscuro del piccolo boom economico locale.
Degli oltre 40 cantieri navali che sorgevano a Glasgow, lungo le acque torbide del fiume Clyde, ne sono rimasti in attività solo un paio, uno dei quali rischia di chiudere alla fine di quest’anno, e anche il resto della produzione industriale – erano “made in Scotland” più di un terzo delle locomotive britanniche lungo le rotte dell’Impero dall’India all’Egitto – è ferma. Nonostante questo, come ha scritto lo Scotsman, «ancora oggi che oltre il 30% delle famiglie di Glasgow conosce la disoccupazione, l’immagine che la città intende dare di sé, o il modo in cui si percepisce, è quella di un posto dove “si fabbrica qualcosa”».

In realtà, la memoria della Glasgow operaia, il cui declino iniziato già dopo la Seconda guerra mondiale sarebbe stato reso definitivo dalla politiche thatcheriane della fine degli anni Settanta, rivive ormai solo nei progetti del Teatro nazionale scozzese che ha messo in piedi quattro progetti in altrettanti siti “postindustriali” della città, dove si producevano navi o si assemblavano i motori delle Rolls-Royce. Proprio da zone come queste gli indipendentisti si aspettano quelle decine di migliaia di voti in grado di fare la differenza tra il “si” e il “no”.

A Easterhouse, nella parte orientale della città – un’area di edizilia popolare costruita alla fine degli anni Cinquanta per offrire alloggi decenti, vale a dire forniti di servizi igenici, agli abitanti più poveri di Glasgow e trasformatasi nel primo approdo dei nuovi immigrati -, i volantini dello Scottish National Party riportano un gigantesco “tak”, “si” in polacco, tanto è forte la presenza di famiglie provenienti dall’Europa dell’est. Diversi studi condotti in vista del voto – che coinvolge tutti i residenti in Scozia, quale che sia la loro nazionalità -, indicano come sia tra chi abita in questo tipo di quartieri e nelle ex zone operaie che gli indipendentisti sono più favoriti, sulla carta. E però molta gente, immigrati o no, non ha dimestichezza con le elezioni: in genere neppure si iscrivono ai seggi e comunque in pochi vanno a votare.

In questo caso, potrebbe andare in modo diverso, anche se la suggestione per kilt e cornamuse c’entra poco. Gli abitanti del quartiere, descritto in passato come un regno delle gang di strada, ridotto alla fame dalla disoccupazione, qualcuno l’ha dipinto come una “no man’s land”, hanno spiegato così agli inviati della stampa internazionale il senso del loro “si”. Daudy, 34 anni, nata in Congo, vive qui dal 2009 e vede «nell’indipendenza della Scozia una possibilità concreta perché le cose migliorino». Andrew, 22 anni, disoccupato, confessa di aver cambiato idea solo nell’ultima settimana, sorretto da una certezza che assomiglia tanto a un’ultima spiaggia: «Con il disastro sociale che c’è, perché le cose non potrebbero andare un po’ meglio se fossimo indipendenti?».
Certo non è questa l’unica ragione che muove i sostenitori del “si”, ma l’opposizione, o sarebbe meglio parlare di rabbia, nei confronti delle politiche che tagliano servizi e annunciano miseria, condotte da Londra, è un argomento forte di questa campagna. Ed esprime il rigetto per quello che Irvine Welsh, lo scrittore figlio della working class di Edimburgo che fin dai tempi di Trainspotting (1993) fotografa l’imbarbarimento sociale frutto della crisi, ha definito sull’Independent come «il consenso neoliberale britannico su cui regnano da 35 anni i tre maggiori partiti del paese: laburisti, conservatori e lib-dem»: i campioni del “no”, sotto lo slogan di “better together”.

Un tempo, le ragioni di una Scozia indipendente crescevano all’ombra di un’analisi che vedeva attive nel cuore stesso del Regno unito quelle pratiche discriminatorie e di sfruttamento che l’Impero britannico aveva imposto ai suoi possedimenti in Africa e Asia. Come spiegava, sulla scorta di Gramsci, il celebre saggio Il colonialismo interno di Michael Hechter. Il voto di oggi, più prosaicamente, potrebbe chiudere i conti con l’eredità di Margaret Thatcher, le cui politiche di deindustrializzazione prima e di tagli poi non sono mai state contraddette fino in fondo nemmeno dal New Labour. «All’epoca, molti scozzesi ebbero il sospetto che i Tory usassero la Scozia come laboratorio sociale per imporre misure impopolari che poi sarebbero state estese anche al resto del Regno unito e che da noi hanno avuto esiti ancora ben visibili», ha spiegato in questi giorni Tom Webster. «Ed oggi – ha aggiunto lo storico dell’Università di Edimburgo – si ha un po’ la stessa sensazione quando si vede che tutti i partiti britannici, che delle politiche della Lady di ferro sono, a diverso titolo, gli eredi, si uniscono per questo referendum». Dalle “no man’s land” di Glasgow è probabile che sia questo il messaggio che, in ogni caso, arriverà oggi nelle urne.