«Il peggior nemico è l’ipocrisia». Papa Bergoglio ha risposto così a quanti gli hanno chiesto un messaggio forte durante un convegno sul clima. E ha ricevuto anche il plauso di quelli che il Vangelo chiamerebbe «sepolcri imbiancati».

La sua Enciclica – Laudato si’, ispirata al Cantico delle Creature – suggerisce infatti una denuncia forte delle asimmetrie sociali e internazionali, delle guerre e delle grandi imprese multinazionali: temi poco praticati nelle ricette imposte alle «democrazie della disillusione». Una denuncia che, durante il recente viaggio in America latina, Bergoglio ha messo al diapason dei movimenti e dei presidenti che scommettono su una nuova indipendenza latinoamericana (la Patria grande di Simon Bolivar): nei toni del «socialismo indigenista» di Morales in Bolivia, in quelli della «revolucion ciudadana» di Correa in Ecuador.

Per quelli del «socialismo bolivariano» dell’operaio Maduro in Venezuela, la cosa si complica un poco: perché le gerarchie ecclesiastiche, che hanno sostenuto i colpi di stato e il latifondo, restano legate ai gruppi di potere modello Fmi e al loro cattolicesimo conservatore, osteggiano la chiesa di base e i suoi preti «bolivariani». Bergoglio manda altri messaggi da quelli del papa guerriero amico di Reagan, Karol Wojtyla. Nell’83, durante il suo viaggio in Nicaragua, Giovanni Paolo II venne accolto da un cartello che diceva: «Bienvenido a la Nicaragua libre gracias a Dios y a la revolución». Come risposta, sospese a divinis Ernesto Cardenal, uno dei sacerdoti che, dopo aver contribuito a cacciare il dittatore Somoza, partecipavano al governo sandinista.

Nel ’98, il papa polacco andò all’Avana in pieno periodo especial: quando, dopo la caduta dell’Unione sovietica, Cuba era incaprettata dal feroce blocco economico imposto dagli Usa nel ’62 e ora riconfermato per un anno da Obama. Allora, raccomandò a Cuba «di aprirsi al mondo perché il mondo si apra a Cuba». Come dire a un tormentato: bacia lo stivale che ti schiaccia, e poi si vede.

In un paese in cui la pubblicità non esiste, fece erigere un cartellone in cui troneggiava la sua immagine con la scritta: «Qui si costruisce la Chiesa». Nel 2012, il papa tedesco Ratzinger è andato all’Avana a parlare della «profonda crisi spirituale e morale» e dell’uomo indifeso «di fronte all’ambizione e all’egoismo di poteri che non tengono conto del bene autentico delle persone e delle famiglie». Raul Castro ha ribadito che Cuba «o resterà indipendente o non esisterà più come nazione».

Allora, era già attivo l’arco di alleanze solidali ideato nel continente da Fidel Castro e Hugo Chavez (l’Alba), e Cuba non era più sola. «Benvenuto papa Francesco», dice ora un cartello. E ad essere sul piede di guerra restano le grottesche «Dame in bianco» che neanche Washington sa come liquidare. Alle ultime elezioni a Cuba, i loro rappresentanti hanno totalizzato 300 voti. Intanto, il 9 settembre, la Usaid ha annunciato che cerca personale per i suoi nuovi programmi contro Cuba (segue dettaglio del salario): serve esperienza in «promozione della democrazia, diritti umani, sviluppo della società civile e formazione di gruppi giovanili».

Si scrive così e si legge «ingerenza»: quella che il governo cubano ha denunciato in questi giorni all’Onu prendendo le difese del Venezuela (Raul Castro parlerà all’Onu tra una settimana). Serve quel tipo di «democrazia» in America latina? Serve il «multipartitismo» modello Troika (votato al massimo dal 30%) per far star meglio le persone? Le cifre dell’America latina che va alle urne per la democrazia partecipata e per la giustizia sociale (e vota oltre il 70%) consentono di farsi un’idea.

Nella Colombia del neoliberismo e della repressione (47 milioni di abitanti), solo il 32% dei giovani può andare all’Università. In Venezuela, preda dell’analfabetismo e della fame prima dei governi Chavez, su 29 milioni di abitanti, l’83% dei giovani va all’università pubblica e gratuita. Cifre dell’Unesco. O della Fao, che ha dedicato a Chavez il programma mondiale di lotta contro la fame e la povertà: perché, mentre in Colombia il 15% soffre la fame, in Venezuela gli affamati sono il 5%. E chi potrebbe dire che i programmi sociali del più moderato Brasile o quelli dell’Argentina non hanno portato benefici reali agli esclusi di sempre e anche alle tanto celebrate «classi medie»?

E come sono state ridotte invece le popolazioni dei Balcani dopo la caduta dell’Unione sovietica? Dietro l’ipocrisia, c’è la truffa feroce del capitalismo, la sua crisi sistemica e la rapina delle risorse. Dal 2008 (quando anche gli economisti borghesi hanno rispolverato Marx per spiegare la crisi “finanziaria”), a fronte della crescente compressione delle condizioni di vita dei lavoratori e dei ceti popolari, si fa strada l’esigenza di razionalità nel governo e nella distribuzione delle risorse: del tutto possibile con lo sviluppo raggiunto dalle forze produttive.

Contro le piccole patrie xenofobe, si fa strada un bisogno di universalismo, che la chiesa vuole colmare, “appropriandosi” della questione sociale: fino a convocare centri sociali e organizzazioni popolari, interrogando dal basso la legalità delle mani pulite, che uccide lasciandoti senza «casa, terra e lavoro» (le «tre T» di Bergoglio). Fino a donare 2.000 euro al presidio autogestito dai migranti al No Border di Ventimiglia. Fuori dai sincretismi e dalle chiese, fuori da proiezioni e rimozioni delle «democrazie senza illusioni», ritorna il senso antico della parola compagno (cum-panis, ovvero condivisione).

Da Cuba che cerca di «attualizzare» il suo modello, all’America latina «partecipata e protagonista» di Venezuela, Bolivia e Ecuador, e dal ritorno in forze del grande capitale internazionale che cerca di soffocarla, riemerge con forza la politica come confronto con la storia e tentativo di guidarla.