Per preparare la ricotta di Appleby basta poco: un litro di latte intero, possibilmente appena munto, una manciata di fiori di sambuco, un cucchiaino di caglio e uno di zucchero. Più complicato vedersela approntare come da cucina della nonna.  Per assaggiare una pietanza che non sfigurerebbe nel pranzo di Babette è necessario farsi invitare da una famiglia gitana, però di provenienza anglosassone. Per studiarsi questa e altre ricette zingare, invece, basta sfogliare le 400 pagine che la rivista anarchica A si è voluta regalare per il suo quattrocentesimo numero:  una foliazione extra-large nella quale a far la parte del leone sono un dossier sulla femminista anarchica Emma Goldman (con diversi scritti sulle questioni di genere della «donna più pericolosa d’America») e ben 117 pagine dedicate alla cucina rom e sinti.

Una decisione motivata dalla scelta di colmare un’assenza che nessuno, nel diluvio di articoli della stampa italiana sull’Esposizione universale 2015, aveva finora notato: «Gli zingari all’Expo non ci sono», scrive il direttore Paolo Finzi nell’editoriale di presentazione del numero. La storica rivista del movimento anarchico italiano restituisce loro il «padiglione negato» nella grande fiera meneghina targata McDonald’s, raccontandone la cultura culinaria, come questa sia riuscita a tramandarsi nei secoli e il legame con i luoghi di insediamento, «la grande capacità assimilatrice, eclettica e innovativa del popolo rom, al quale le nazioni dell’Europa sono debitrici della conservazione, valorizzazione e diffusione dello straordinario patrimonio gastronomico europeo», scrive il curatore dello speciale Angelo Ariati.

Così, tra un gulash rom austroungarico e una sinti-sabauda bagnacauda, quel che si celebra, con questo traguardo simbolico dei 400 numeri, è «una storia di comunicazione libertaria, di opposizione al potere, di collegamento tra esperienze di segno libertario, uno strumento di lotta contro l’ingiustizia e i diritti negati», un giornale che ha sempre remato «in direzione ostinata e contraria», come avrebbe detto un loro grande amico e compagno: Fabrizio de André. Un veliero corsaro passato indenne tra i marosi degli anni Settanta (il primo numero uscì nel febbraio del 1971, tre mesi prima del primo numero del manifesto quotidiano) e il riflusso degli Ottanta, il difficile passaggio di fine millennio e la bassa marea di questi ultimi anni. Sempre con l’idea di mantenere accesa quella fiaccola di speranza libertaria, che se non è riuscita a cambiare il mondo ha avuto il merito di illuminarne gli angoli più reconditi. Una fiaccola accesa da un secolo e mezzo, «da quando il movimento anarchico è nato in seno al movimento operaio e contadino, al primo movimento socialista, per affermare al loro interno l’estraneità alle istituzioni e alla partecipazione al potere che, se ne ha marcato l’originale e coerente funzione di bastian contrario rispetto al riformismo (da Turati a Renzi, per capirci), al contempo ne ha reso più difficile la vita in una società sempre più istituzionalizzata», come scrive ancora Finzi. La rivista si propone come punto di riferimento per tutti coloro che «si muovono su una lunghezza d’onda critica, autogestionaria, libertaria, anche se non si riconoscono nel progetto anarchico». Da questa apertura è nata l’idea di uno spazio riservato al Controsservatorio No-Tav della val di Susa (con un articolo, tra gli altri, del giurista Livio Pepino) e l’attenzione al movimento zapatista con apposite «lettere dal Chiapas». Per finire, è doveroso segnalare un articolo dell’antropologo e ideologo di Occupy Wall Street David Graeber sulla «stagnazione tecnologico-creativa» ai tempi del turbocapitalismo. Una buona lettura in vista di un autunno che alla fine di ogni estate si spera caldo.