La voce del ragazzo, davanti ai filmati di archivio, chiede di Varalli e Zibecchi, i due militanti di sinistra uccisi a un giorno di distanza, il primo dai fascisti di avanguardia nazionale, il secondo da una camionetta dei carabinieri: «Chi erano?». Due compagni» taglia corto l’altro che ha i capelli bianchi e quella storia l’ha vissuta in prima persona. L’uomo si chiama Felice Esposito, il ragazzo Enrico Maisto, è il regista di questo film che ripercorre la Storia degli anni settanta da un punto di vista personalissimo, intimo quasi, di un giovane nato parecchio tempo dopo (è del 1988), e che verso quel periodo, come dice lui stesso, prova una «fascinazione mista a repulsione». Cosa lo spinge allora in questa ricerca che è durata quattro anni, tanti ce ne sono voluti per girare il suo film, indipendente e bassissimo budget ma di grande forza, prova che gli sguardi più interessanti delle nuove generazioni arrivano da situazioni periferiche, fuori da scuole (Maisto non ha fatto il Centro sperimentale) e luoghi «canonici» di produzione (il progetto è stato sviluppato all’interno del laboratorio Nutrimenti terresti, Nutrimenti celesti di Filmmaker a Milano).

 

 

Non è questione, non solo almeno di mitologie pure se Felice, negli anni Settanta militante di Lotta continua, il regista lo conosce in quanto amico di famiglia da quando era piccolo, e lo ha sempre visto come un personaggio letterario, un eroe alla Garcia Marquez, un po’ fuorilegge, molto lontano dal padre magistrato di sorveglianza e dagli ambienti della sua famiglia. Quando era ragazzino Felice, che ha un’officina, veniva a prenderlo e lo portava con sé sul carro attrezzi. Quale legame univa allora quei due uomini, il padre Francesco, che il regista ha smesso di chiamare papà quando aveva tredici anni, e Felice? Un luogo intanto, la vecchia osteria del Mulino doppio, a Milano, dove capitavano insieme «magistrati e terroristi». E un’amicizia che al padre del regista ha salvato la vita. Era finito infatti nel mirino dei terroristi ed è stato Felice che lo ha scoperto per caso a salvarlo. «Quello lì non si tocca» racconta al figlio, come tanti altri era l’obiettivo sbagliato.

 

 

Comandante – per chi è a Milano in questi giorni viene programmato al Beltrade, cercatelo perché ne vale la pena – è un film denso per come il regista si mette in gioco intrecciando alla sua ricerca su un periodo «tabù» del nostro paese, che da sempre l’immaginario evita di affrontare – o che quando affronta chiude in insopportabili gabbie dimostrativo- ideologiche – e le sue relazioni. Col padre, e col suo lavoro di giudice di sorveglianza, con Felice che è anche lui una figura paterna seppure agli opposti, con la loro Storia. Un punto delicato per i due uomini di cui le domande dirette del ragazzo svelano l’imbarazzo, la fatica dolorosa nel dargli le risposte che sta cercando. C’è un passaggio molto commuovente nella conversazione tra padre e figlio, che avviene nelle celle di isolamento di San Vittore che il padre aveva fatto chiudere denunciando la condizione dei detenuti chiusi lì senza acqua, riscaldamento, senza igiene. Il ragazzo insiste, gli chiede di Felice, cosa ne pensa oggi, cosa ha pensato allora, se non temeva di essere stato usato, di essere stato salvato perché era «buono«. L’uomo esita, abbassa gli occhi quasi a cercare la parole mentre la macchina da presa lo stringe da vicino, e infine dice: « Senza rischi non si fanno passi in avanti».

 

 

Anche Felice è a disagio a spiegare adesso quel tempo e le sue scelte, e mentre sfoglia le fotografie che lo mostrano giovane col regista bambino, non ce la fa a rispondere alla domanda: «Tu avresti sparato?». Lui no perché è comunista ed è per la vita, ma poco dopo dice che forse non ne aveva il coraggio e quando il regista gli fa notare la contraddizione si avvita fra le parole. Adesso Felice continua a attaccare volantini di lotta, detesta il Pd e Massimo D’Alema, a Cuba gli piace ballare e poi ha il fiato corto.

 

 

Comandante tocca il nervo scoperto della a trasmissione della memoria (più che della storia) tra padri e figli, (la sceneggiatura è di Maisto con la supervisione di Chiara Brambilla) e riesce senza retorica a dare voce a questo vuoto, al silenzio posto sulla Storia (le storie) del nostro Paese inespresse nei loro paradossi, nel loro conflitto, fuori da tutto quello che è un’impossibile linearità. È quasi disturbante il modo con cui il regista vi si avventura a cominciare dallo stile, primi piani stretti, che scavano nei volti, confrontando con quelli dei due uomini anche i suoi dubbi, le sue incertezze. E quel bisogno di comprendere un’epoca si trasforma così in un viaggio emotivo teso e profondo, senza pregiudizi o trionfalismi, prezioso nel modo di interrogare ciascuno e la sua esperienza.