L’effetto Serra, nel senso del finanziere amico e finanziatore del premier, è stato provvidenziale, perché stimola i cittadini informati e in buona fede a riaprire il Libro Sacro della Repubblica e rammentare che l’articolo 1 della Costituzione, ponendo il lavoro come principio costitutivo della nuova forma di Stato, pone il lavoro come direttiva costituzionale finalizzata ad avviare il superamento di disuguaglianze e di privilegi incompatibili con lo Stato democratico moderno (art. 3).

Significa che non può realisticamente poggiare sull’impalcatura dello Stato liberale del secolo precedente, ma necessita di un assetto democratico che investa tutte le strutture economiche e sociali.
Coerentemente, l’art. 4 stabilisce che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e si impegna a promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Questi principi non sono spuntati per caso, sono frutto di un’evoluzione economica e sociale irreversibile e non molestabile dai messaggini e dalle astuzie governativi.

La Grande Guerra, la crisi dello Stato liberale e degli assetti economici e politici, il suffragio universale , la conseguente moltiplicazione dei conflitti nella società e nelle istituzioni democratico-liberali avevano già condotto a indebolire il monopolio politico della borghesia , che fece i conti con l’esigenza di contemperare i propri interessi (incentrati sulla libera iniziativa economica e sulla proprietà privata) con le rivendicazioni egualitarie espresse dalle organizzazioni politiche e sindacali, sul piano dei diritti fondamentali e del benessere In Europa e in Italia, dopo la seconda guerra mondiale, si approda al costituzionalismo moderno, alla costituzione economica, all’economia mista in cui si limita l’individualismo liberale e si dà spazio al principio di solidarietà, anteponendo l’interesse collettivo a quello dei singoli, con una concezione sostanzialistica dell’uguaglianza.

I Costituenti intesero porre quindi le condizioni per una democrazia effettiva, apparendo evidente che la democrazia politica si riduce a mera facciata se non accompagnata dalla giustizia sociale, cioè dalla limitazione dei centri di potere troppo forti e prevaricanti , protetti dalla ingovernabili regole del mercato. Di qui la necessità di coordinare le iniziative imprenditoriali private in un quadro di piani per il conseguimento degli obiettivi dello Stato sociale.

L’ultimo comma dell’art. 41 affida alla legge di determinare i “programmi “ rivolti ad indirizzare e coordinare a fini sociali l’attività economica pubblica e privata, fondati su reciproche conoscenze di iniziative e di linee di investimenti, nella prospettiva di sviluppo dell’economia.

Questa cultura riformista era radicata nell’area di sinistra (in primo luogo Lombardi e Giolitti) con una forte presenza laica e cattolica (La Malfa, Mortati, Saraceno), accomunati dalla consapevolezza che solo una pianificazione fondata sul primato del collettivo sull’individuale, sul primato dello Stato sul mercato avrebbe potuto sanare le disuguaglianze ben visibili nella nostra società.

Coerentemente la prima versione del governo di centro sinistra prevedeva l’approvazione in parlamento di una legge introduttiva della democrazia economica, il trasferimento alle istituzioni rappresentative pubbliche del potere di incidere sulle scelte economiche di fondo, allora (ed oggi) in esclusiva gestione dei ceti detentori del capitale privato.

Questa euforia riformista si dissolse però con la drammatica conclusione della crisi del primo governo organico di centro sinistra, nato il 4 dicembre 1963. La crisi, iniziata a fine giugno del 1964 si era conclusa sotto l’influsso di voci su un colpo di stato con un nuovo accordo del 18 luglio successivo, in cui le grandi riforme (regioni, programmazione , legge urbanistica) erano state ridimensionate o accantonate .

Tralasciamo le origini politiche del tintinnio di sciabole percepito da Nenni il 14 luglio 1964 e il pervicace silenzio dei giornalisti impancati a storici su questo nero episodio. Punto fondamentale rimane la mancata soluzione del problema della democrazia economica, travolto dal trionfo delle privatizzazioni di beni essenziali, dalle dismissioni a costo disastroso di aziende pubbliche basilari (acciaierie in primis), dal naufragio della questione meridionale (esemplare l’invio degli industriali del Centro-Nord non di investimenti ma di rifiuti tossici).

Il ruolo fondamentale per lo Stato imprenditore non è espressione di nostalgie di settantenni, come dimostra la nuova ondata di economisti, che, a fianco della analisi degli effetti negativi, sul piano sociale ed economico, della legge del libero mercato, mette in evidenza il ruolo trainante dello Stato per superare le naturali disuguaglianze del capitalismo. In una fase storica di decisivo ruolo dei mezzi di comunicazione è molto rilevante il sostegno al primato dell’impresa privata affidato a favole mediatiche diffuse con solerzia, oltre che dai grandi quotidiani anche da chi è salito ad alti ruoli istituzionali in nome e per conto della classe dei lavoratori.

Esiste la diffusa opinione che per favorire la ripresa occorre un passo indietro dello Stato, in modo che lo spirito imprenditoriale e la capacità di innovazione del settore privato possano dispiegare tutta la loro forza. Secondo Mariana Mazzucato (Lo Stato innovatore, Laterza), ci si affida al sogno di mercati che governerebbero il mondo in modo ottimale se solo lo Stato li lasciasse fare. I media, le imprese e i politici ultraliberisti (autentici o mascherati da progressisti) attingono a questa contrapposizione di comodo e alimentano la dicotomia fra un settore privato “rivoluzionario”, dinamico innovativo e competitivo , e un settore pubblico lento, burocratico, immobilista, che intralcia l’economia. Il messaggio è ripetuto con tale frequenza che tanti lo accettano come verità scontata e molti sono addirittura convinti che la crisi finanziaria del 2007, che nel giro di poco tempo si è trasformata in una crisi economica, sia stata provocata dal debito pubblico.

La sempre più frequente “esternalizzazione” dei servizi pubblici al settore privato risponde poi all’argomento dell’efficienza , ma nessuno ha mai effettuato un’analisi di risparmi in termini di costi reali, specialmente se si aggiunge al conto la mancanza di controllo e i costi assurdi che ne conseguono.

Quando non sono impegnate a far pressione sullo Stato per ottenere misure di supporto – da impiegare anche all’estero-, le lobby industriali nelle aree più disparate invocano la libertà dalla longa manus dello Stato, visto come un apparato che soffoca la loro capacità di creare ricchezza, imponendo norme a tutela dei lavoratori e del patrimonio collettivo. Nell’eurozona si sostiene che tutti i mali dei paesi della “periferia”, come Portogallo e Italia, derivano dalla presenza di uno Stato spendaccione, ignorando i dati che mostrano come questi paesi siano caratterizzati da un immobilismo del settore pubblico che non realizza quel tipo di investimenti strategici che i paesi del “nocciolo duro” di maggior successo, come la Germania, portano avanti da decenni (ivi, 27 e 226 ss).

C’è poi la favola narrata dal nostro governo sull’imprenditore buono ed umano, che in questo momento di crisi merita di riacquistare la libertà –coartata dalle leggi ispirate alla Costituzione- di licenziare quanti e quando fosse conforme agli interessi suoi e in primo luogo dei giovani disoccupati, che sul suo onore si impegna ad assumere, in cambio di una normativa modernamente indipendente dalla Costituzione .

In conclusione, a fronte dei moderni “costituenti”, apertamente partigiani del capitale privato e dei suoi centri di potere, protetti dalle ingovernabili regole del mercato, meritano rinnovata fiducia i Costituenti per i quali era evidente che la democrazia politica si riduce a mera facciata se non garantita dalla democrazia economica. La realtà è semplice: non è sufficiente difendere le norme sul bicameralismo perfetto se ci si dimentica che è al di fuori delle assemblee elette dai cittadini che si decide in via esclusiva il destino della collettività; se si trascura la necessità di superare la separazione tra sfera economica e sfera politica e di trasferire alle istituzioni rappresentative pubbliche il potere di incidere sulle scelte economiche di fondo.

Se la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, è uno Stato deliberatamente interventista che deve impegnarsi a promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto , perseguendo finalità sociali non sempre compatibili con la logica del profitto.

La sinistra è tutta qui.