Nei giorni in cui le scuole tornano a ospitare i nostri studenti, vale la pena tornare su una notizia di quelle che i giornali di oggi snobbano. Uno dei tanti casi di razzismo a cui ci hanno abituati gli inizi degli anni scolastici.
Addestrati dai media a pensare che la scuola, anche quella pubblica, sia un servizio alla famiglia e non un diritto individuale al minore, i genitori di alcuni alunni non vogliono che i propri figli frequentino classi con altri alunni che non ritengono “adeguati”.
Possono essere, di volta in volta, bambini nati in Italia ma con i genitori di origine straniera. Oppure alunni disabili. Oppure alunni rom. C’è solo l’imbarazzo della scelta. La scusa? Sempre la stessa: questi “diversi” sono troppi e rallenterebbero l’apprendimento dei propri figli italiani doc. Uno dei tanti casi di questa particolare forma di razzismo a fin di bene, come l’ho sentito definire da una mamma e un papà – a fin di bene perché si fa per i propri figli – riguarda i rom.
«I bambini rom in classe sono troppi», hanno detto alcuni genitori italiani di Landiona, seicento abitanti, vicino a Novara. Il sindaco Marisa Albertini: «Abbiamo cercato di convincerli a lasciare i loro figli, ma hanno preferito portarli nel paese vicino». Una decina di anni fa, per tenere aperta la scuola del paesino, l’amministrazione comunale aveva invitato le famiglie rom a portare i figli a scuola. In questo modo la struttura era stata salvata dalla chiusura.
Ora il problema rischia di riproporsi. Ma sembra che sia meglio non avere la scuola, piuttosto che avere una scuola “infestata” di rom. «I bimbi rom iscritti sono 25 – spiega il primo cittadino – ma quelli che frequentano le lezioni sono molti di meno. Gli italiani, se vogliamo definirli così, sono una dozzina.
Avevamo tentato di accorpare le classi con quelle di Sillavengo, altro paese della zona, per favorire una maggiore integrazione, ma non è stato possibile». Scoppia la polemica in consiglio comunale. «È un fatto di una gravità assoluta», commenta Francesco Cavagnino, consigliere comune di minoranza a Landiona. «Questa storia getta discredito su tutto il paese, ma noi non siamo razzisti». Preferisce invece non rilasciare dichiarazioni il dirigente scolastico dell’istituto comprensivo che comprende anche la scuola di Landiona.
Credo che il problema spinoso degli alunni rom meriti una seria riflessione. «Non lavorano!» «Sono tutti ladri!» Anche a me capita di sentire commenti del genere quando nel paese dove insegno arrivano i figli dei giostrai. Ne sento di tutti i colori. Zingari. Rom. Basta la parola. Non esiste miglior capro espiatorio per mettere paura all’opinione pubblica, cercando poi, in nome di una presunta maggior sicurezza, di risollevare gli indici di popolarità di governanti o piccoli amministratori in difficoltà. Dimenticandosi come, in nome della sicurezza, si compiono spesso crimini. La Lega insegna. Ma questa cultura della differenziazione meritocratica a priori tra presunti meritevoli e presunti immeritevoli è ormai stata assorbita dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Ed è esattamente quella che condannerà i figli dei genitori con figli italiani doc che oggi vogliono la segregazione di alunni rom, diversamente abili o con genitori di origine straniera.
«Guarda come sono vestiti!». «Puzzano!». Zingari, rom: la sola parola ci turba. Perché? Perché il loro stile di vita non è spiegabile coi nostri parametri economici e sociali. Perché sono spesso l’avanguardia di migrazioni più grandi, inevitabili: frutto di una economia che penalizza i più deboli. Ma anche perché sul loro conto siamo molto più ignoranti che su qualsiasi altro argomento. Per esempio, pochi di noi sanno che non esistono solo “zingari in Italia”, ma “italiani zingari”: l’80% di quelli che vivono da generazioni nella nostra penisola. Compresi i figli dei giostrai che per qualche settimana resteranno nella nostra scuola.
Cecile, dai, dì qualcosa anche per loro! L’ha detto anche Papa Francesco di aprire le parrocchie e i conventi agli immigrati! Anche se poi, sia chiaro, sono proprio le scuole private che favoriscono la separazione tra meritevoli e immeritevoli a sei anni a partire dalla situazione economica delle singole famiglie, cioè per censo, spesso anche nelle scuole private cattoliche o in quelle non di ispirazione cattolica come, per esempio, quelle steineriane.