Nella periferia di Qom, circondata dalle montagne e dal deserto, si nasconde il sito nucleare iraniano più contestato dalla comunità internazionale, ma in giro nessuno sa dove si trovi esattamente l’impianto della discordia. Costruito in gran segreto per contenere tremila centrifughe destinate all’arricchimento dell’uranio e ispezionato per la prima volta nel 2009 dall’Aiea, dai residenti è conosciuto solo per sentito dire. Sono altri i luoghi che appassionano e dividono gli abitanti della seconda città santa del paese (la prima è Mashhad), che fu la capitale storica della rivoluzione islamica e che oggi, nell’era del disgelo post-sanzioni, rimane un baluardo dell’ortodossia conservatrice del regime.

Già da prima della rivoluzione del 1979 Qom ospitava numerose scuole di teologia sciita, e da alcuni decenni contende a Najaf, in Iraq, il ruolo di primo centro dello sciismo mondiale. Accanto all’enorme santuario di Fatima Massoumeh, sorella dell’imam Reza morta avvelenata a Qom nel IX secolo d.C., si trova la madrasa di Feyziyeh, antico e prestigioso istituto di studi islamici. Qui Khomeini, che arrivò a Qom negli anni Venti al seguito del marja Haeri Yazdi per studiare la sharia e la giurisprudenza islamica , tenne le sue affollatissime lezioni di religione, filosofia e teosofia; e qui più tardi avrebbe insegnato anche Hossein Ali Montazeri, suo ex allievo e discepolo prediletto, diventato poi vice Guida suprema della Repubblica islamica.

Quando all’inizio degli anni Sessanta i sermoni e la popolarità di Khomeini cominciarono a essere manifestamente invisi alle autorità politiche, l’ayatollah fu costretto a ritirarsi a vita privata nella casa di Yakhchal Qazi, in un quartiere modesto non lontano dalla madrasa di Feyziyeh. Nelle stanze di questa abitazione, oggi diventata un centro di consulenza religiosa e meta di pellegrinaggio per fedeli e ammiratori, Khomeini continuò a impartire i suoi insegnamenti e criticare aspramente la reggenza dello scià e la sua “rivoluzione bianca” (il programma di riforme sottoposto a referendum nel gennaio 1963). In questa stessa casa poco prima dell’alba del 5 giugno del ’63, l’ayatollah fu arrestato dagli ufficiali della Savak, la polizia di stato. Il 3 giugno, infatti, in occasione delle celebrazioni per il martirio dell’imam Hossein, nella sede della scuola di Feyziyeh che solo due mesi prima era stata il bersaglio di un raid sanguinoso delle forze dell’ordine, Khomeini aveva pronunciato un discorso infuocato tacciando Reza Pahlavi di essere un despota corrotto e un “miserabile” al soldo degli Stati Uniti.

All’arresto dell’ayatollah la risposta della città, tutta schierata dalla sua parte, fu immediata e nei giorni successivi proteste e tumulti si propagarono anche a Teheran, Shiraz, Kashan e Mashhad. Così il movimento del 15 mordad (la data dell’arresto di Khomeini secondo il calendario iraniano) fu una sorta di prova generale dell’ondata di manifestazioni che avrebbero travolto il paese nel 1978. Da allora Qom si allenò a diventare uno degli epicentri della rivolta contro lo scià che sarebbe esplosa quindici anni dopo.

Contro il massacro delle prigioni

Il santuario di Fatima Massoumeh ospita anche la tomba dell’ayatollah Montazeri. Erede designato di Khomeini, caduto malamente in disgrazia alla fine degli anni Ottanta per aver contestato la repressione sanguinosa degli oppositori orchestrata da Teheran, Montazeri è stato sepolto a Qom nel 2009, accompagnato da un bagno di folla di oltre mezzo milione di persone. Qui aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita, di cui cinque, tra il 1997 e il 2003, agli arresti domiciliari e sotto rigida sorveglianza, per aver contestato pubblicamente l’autorità della Guida suprema Ali Khamenei.

Due settimane fa la voce sepolta di Montazeri è tornata scuotere le fondamenta visibilmente incrinate della Repubblica islamica, con la diffusione di una registrazione audio di 40 minuti apparsa sul sito ufficiale dell’ayatollah. La registrazione, che risale al 5 agosto 1988, riporta la conversazione avvenuta durante una riunione tra Montazeri e i vertici dell’apparato giudiziario, tra cui l’attuale guardasigilli nominato dal presidente Hassan Rouhani, il ministro Mostafa Pourmohammadi, all’epoca incaricato degli interrogatori nella prigione di Evin, a Teheran, in qualità di capo dell’intelligence.

“Siete responsabili del più grosso delitto commesso dalla Repubblica islamica – tuona Montazeri nella registrazione. “La storia ci condannerà e si ricorderà dei vostri nomi per aver agito come dei criminali. Uccidere è il modo sbagliato di combattere un’idea”.

Così l’ayatollah si opponeva al massacro in corso di migliaia di prigionieri politici (4000-5000 secondo le stime di alcune organizzazioni per i diritti umani, 30mila secondo fonti militanti) processati una seconda volta con interrogatori sommari e ridicoli, poi condannati e immediatamente giustiziati dai comitati rivoluzionari.

Durante l’incontro Montazeri esprimeva preoccupazione (“non riesco a dormire, questa cosa mi affanna la mente per ore”), si dichiarava convinto che il piano di esecuzioni fosse stato architettato dall’alto molto tempo prima, e ribadiva con insistenza la propria contrarietà (“mi oppongo ad ogni singola condanna a morte”). A nulla purtroppo valsero le sue parole, e l’eccidio dei prigionieri politici cominciato il 27 luglio 1988 sarebbe andato avanti fino all’autunno.

A distanza di 28 anni, di quelle esecuzioni capitali, una della pagine più nere della storia post-rivoluzionaria, non si sa ancora quasi niente. Si sa, per esempio, che per morire bastava poco. Ai prigionieri venivano rivolta qualche domanda di rito – se erano musulmani praticanti, se credevano nei valori della Repubblica islamica, se fossero stati disposti a combattere in Iraq per difenderla – e in genere si chiedeva ai dissidenti di rinnegare la propria appartenenza politica. Era sufficiente rispondere negativamente per essere fucilati nel giro di pochi secondi.

La memoria selettiva

Mancano tuttora all’appello molti corpi giustiziati, reclamati dalle famiglie delle vittime, e una lista ufficiale dei nomi. Tra i prigionieri appartenenti all’opposizione di sinistra figurano diversi esponenti del Tudeh (il partito comunista iraniano), i Fedayn, e soprattutto i membri dei Mujahiddin del popolo, una formazione politica particolarmente invisa al regime per aver condotto operazioni militari contro l’Iran durante la guerra con l’Iraq.

Nel 1990 un rapporto di Amnesty International inchiodava la Repubblica islamica alle sue colpe, accusandola di aver premeditato strategicamente gli omicidi di massa. Una dichiarazione della stessa organizzazione, che risale al gennaio 2009, intimava invece al governo di Teheran di sospendere immediatamente la distruzione del cimitero di Kharavan, a sud della capitale, per salvaguardare le fosse comuni dove durante il “massacro delle prigioni” furono seppellite anonimamente centinaia di cadaveri e dove i familiari dei defunti continuano a recarsi in visita per commemorare la tragedia di quelle morti e strapparle all’anonimato. Secondo Amnesty, inoltre, il sito di Kharavan dovrebbe essere il punto di partenza per un’indagine “indipendente e imparziale” finora mai condotta sull’accaduto che porti a processare i responsabili dell’eccidio. Proprio la disintegrazione di quei luoghi, invece, dice della volontà dello stato iraniano di cancellare le prove di ciò che è avvenuto, negando alle famiglie il diritto alla verità.

Ad oggi le vittime del 1988 rappresentano un cospicuo esercito di martiri ufficiosi e rinnegati da parte di una società che del culto dei martiri ufficiali (le vittime della Savak, e poi i combattenti nella guerra contro l’Iraq) ha fatto il suo marchio di fabbrica, ricordandoli ad ogni angolo di strada. La memoria (selettiva) è uno dei pilastri della propaganda della Repubblica islamica, che non perde occasione per celebrare le gesta dei suoi eroi e dannare i trascorsi dei suoi avversari. Un esempio emblematico è la prigione di Al Qasr, dove nel 1963 per alcune settimane fu rinchiuso anche Khomeini dopo il suo arresto. In principio un palazzo reale costruito a fine Settecento dallo scià Fath Ali della dinastia Qajar, trasformato in prigione nel 1929, e poi in un museo inaugurato nel 2012, il complesso è un reperto importante della storia carceraria iraniana prima della rivoluzione e ricostruisce con dovizia di particolari la crudeltà del regime dei Pahlavi. Ex detenuti in carne e ossa si offrono di guidare i visitatori, tutti iraniani, tra le celle minuscole, le stanze di tortura, i corridoi angusti in cui vengono diffuse in loop dagli altoparlanti le lamentazioni registrate dei prigionieri, e i cortili grigi deputati allo svago o alle fucilazioni. Ma sebbene la struttura sia stata mantenuta attiva anche dopo il 1979, quando servì a stipare i prigionieri politici del regime di Khomeini, quello che è successo in questo luogo nei trent’anni successivi non è cosa di cui parlare.

Le due anime della rivoluzione

Nonostante le intimidazioni del ministero dell’intelligence all’indomani della pubblicazione del file, che hanno convinto Ahmad Montazeri a rimuoverlo dalla circolazione, l’impietoso j’accuse dell’ayatollah ha fatto il giro del web, suscitando le reazioni più disparate sui social network e nei commenti ai siti di informazione che hanno riportato la notizia: c’è chi accusa l’ex braccio destro di Khomeini di tradimento, chi gli rimprovera di essere stato complice di questi omicidi per non aver mai rotto risolutamente con il regime, chi gli imputa un eccesso di ingenuità per aver capito e reagito troppo tardi.

A causa delle proporzioni assunte dalla vicenda, neanche la stampa ufficiale ha potuto ignorarla.Nel ricostruire la questione, l’agenzia di stampa Fars News ha rivendicato la giustezza delle condanne e delle esecuzioni, contestando gli argomenti di Montazeri e criticando la decisione del figlio di diffondere la registrazione. Keyhan, storico giornale conservatore che riflette gli orientamenti della Guida suprema, ha attribuito allo zampino di Daesh e dei sunniti la paternità dell’operazione. L’editoriale del quotidiano filogovernativo Javan, invece, ha accusato il figlio di Montazeri di aver voluto vendicare il padre, diffamando Khomeini.

In un’intervista a Bbc Farsi, Ahmad Montazeri ha illustrato le ragioni della sua scelta di rendere pubblico l’audio incriminato. Il dato non è del tutto nuovo, visto che l’autobiografia dell’ayatollah presenta la stessa versione dei fatti, ma la registrazione costituisce una prova schiacciante a scapito dei suoi interlocutori, la cosiddetta “commissione della morte”. Per il giovane Montazeri la conversazione “riesumata” servirebbe a riaffermare, contro le smentite dei vertici della Repubblica islamica, fino a che punto il numero due di Khomeini sia stato critico nei confronti degli apparati di stato.

Dalla fine degli anni Ottanta, che sancirono la rottura definitiva tra i due numi tutelari della rivoluzione, Montazeri e Khomeini hanno cominciato a incarnare due distinti possibili risvolti del percorso rivoluzionario. Vittime della repressione di Reza Palhavi – esiliato dal 1964 per 14 anni Khomeini, imprigionato tra il 1974 e il 1978 Montazeri – e convinti sostenitori della velayt e faqih, la dottrina che affida ai giurisperiti musulmani la guida del paese e che entrambi hanno contribuito a teorizzare, i due ayatollah iniziarono a divergere rapidamente quando lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq spinse Teheran ad adottare una strategia sempre più repressiva e letale nei confronti dei gruppi dissidenti.

Dopo due lettere private indirizzate a Khomeini per manifestare il proprio disaccordo in merito all’operato del regime, l’ultimo affronto di Montazeri alla Guida Suprema risale al 1989. In quell’anno l’ayatollah rilasciò un’intervista a Keyhan in cui imputava a Khomeini la colpa di aver liquidato “i veri valori della rivoluzione”, tradendo le aspirazioni del popolo iraniano.
Khomeini rispose con durezza alle accuse di Montazeri, che pochi giorni dopo finì per rinunciare pubblicamente al proprio incarico di erede. Da quel momento perse il titolo di Grande ayatollah e la sua figura venne definitivamente oscurata, mentre i suoi sostenitori e collaboratori divennero personae non gratae, suscettibili di essere perseguitate e uccise. Assurto a paladino dei diritti umani calpestati da Teheran, negli anni successivi, Montazeri ha accompagnato il movimento riformatore che nel 1997 ha portato alla presidenza di Mohamed Khatami, e nel 2009 ha appoggiato “l’onda verde” dei sostenitori di Mir Hossein Moussavi contro la rielezione truccata di Mahmoud Ahmadinejad. Ed è stato Montazeri a proporre tre giorni di lutto nazionale per rendere omaggio alla morte di Neda Agha Sultan, la studentessa uccisa a fuoco durante una manifestazione di protesta da un membro del basij, la forza paramilitare fedelissima al regime.

A distanza di sette anni dalla sua scomparsa lo spettro di Montazeri continua a tormentare la Repubblica islamica, riscattando vecchi delitti e paventando nuovi castighi: “Non saremo al potere per sempre, e la storia un giorno ci giudicherà”.

Per le fazioni moderate del regime, che premono per una progressiva trasformazione dell’apparato onde evitare che la crescente perdita di legittimità delle istituzioni clericali finisca per portare al tracollo l’intero sistema, il caso Montazeri ha offerto l’opportunità di cominciare a fare autocritica, cosa che i vertici conservatori, Khamenei in primis, non sono apparentemente disposti ad accettare. Le elezioni presidenziali del 2017 saranno un’occasione per testare se e quanto le fratture interne al ceto politico, già emerse in occasione delle negoziazioni sul nucleare nella contrapposizione tra il presidente Rohani e la Guida suprema, e il nuovo corso inaugurato nell’era del dopo sanzioni avranno prodotto contraccolpi sostanziali sugli equilibri del paese.