Finestre aperte sul Messico, fra cronaca e racconto. Come l’occhio del faro che gira, il libro di Fabrizio Lorusso, NarcoGuerra, illumina passaggi e zone d’ombra di un paese di incubi e sogni, di fughe e di mete. Lorusso, docente, scrittore, blogger e giornalista freelance, vive da 13 anni la realtà sdoppiata di un paese che contraddice il vecchio detto secondo il quale il Messico è unico e irripetibile («como México no hay dos»). Col disincanto del viaggiatore navigato, Pino Cacucci firma il prologo al volume, e riconosce nell’autore lo stesso sguardo, lo stesso stupore da lui provato nel primo approdo di trent’anni fa. Lorusso – dice Cacucci – è un «lodevole donchisciotte che, penna – o tastiera – in resta, affronta i mulini a vento dei todopoderosos di sempre, di ieri e di oggi…» .

NarcoGuerra raccoglie e attualizza reportage, interviste, analisi e articoli pubblicati in otto anni dall’autore. Tasselli di un mosaico da cui emerge il sistema di potere che produce e alimenta la «narcoguerra», le reazioni che provoca e i movimenti che vi si oppongono e che chiedono un cambiamento di paradigma. E così, il libro si apre e si chiude sulla storia dei 43 studenti della scuola rurale Isidro Burgos, scomparsi dal 26 settembre del 2014. Una vicenda che ha commosso il mondo, svestendo di retorica il racconto sul «Paese emergente che ha dimenticato la violenza dei narcos e s’avvia sulla strada delle riforme». La realtà del Guerrero – uno stato meridionale del Messico in cui le cifre dell’esclusione e della violenza raccontano in modo emblematico l’altra faccia del paese – ha riportato in scena l’asimmetria insanabile che alimenta invece il meccanismo, e che obbliga gli ultimi della catena a una scelta obbligata: soccombere o lottare, attingendo alla cassetta degli attrezzi ereditata da chi è venuto prima. Le scuole normali rurali – ricorda Lorusso – hanno una lunga e combattiva tradizione, portatrice di un progetto politico-educativo che mette al centro l’alfabetizzazione della popolazione rurale e la formazione di maestri coscienti: un indirizzo inverso ai piani di privatizzazione neoliberisti rilanciati dal presidente Enrique Peña Nieto, tesi a vendere il paese agli investitori stranieri e ad aggravare gli effetti di uno stato tanto subalterno ai poteri forti quanto feroce con i deboli. Scuole come quelle di Ayotzinapa, da cui provenivano i ragazzi scomparsi, sono nate negli anni Venti e hanno trovato slancio negli anni Trenta durante la presidenza di Lazaro Cardenas, ponendosi come punta avanzata della «educación socialista» per le zone rurali del paese. Sui muri delle aule restano i ritratti del Che e quelli del maestro rurale Lucio Cabanas, figura mitica della guerriglia messicana degli anni Settanta, che si è diplomato nella Normale rural di Ayotzinapa. Le scuole hanno resistito ai ripetuti attacchi dei governi neoliberisti degli anni ’80, ma alunni e maestri hanno duramente pagato fino agli anni più recenti. Lo stato messicano – ricorda ancora l’autore – ha d’altronde una lunga «tradizione stragista» e di omissioni. L’elenco è lungo, ma alcune date restano impresse nella memoria di chi non si rassegna: da quella del 2 ottobre 1968 a Tlatelolco a quella di Atenco e Oaxaca del 2006, ai due massacri di migranti a San Fernando e Tamaulipas (2010, 2011), agli attacchi al caracol zapatista del 2014, fino alle stragi commesse dall’esercito contro civili che si erano arresi a Tlatlaya nel giugno 2014 e ad Apatzinagan nel gennaio del 2015.

I normalisti di Ayotzinapa stavano raccogliendo fondi proprio per commemorare il massacro di Tlatelolco. Allora, la polizia sparò sulla folla che manifestava, nel pieno della contestazione studentesca in atto a livello mondiale. Vi furono centinaia di morti. Il 26 settembre del 2014, secondo un metodo di protesta consolidato negli anni, gli studenti avevano «dirottato» alcuni autobus verso la città di Iguala. Vennero però attaccati dall’azione congiunta di polizia municipale e narcotrafficanti, che provocherà la morte di tre studenti e il ferimento di altri 25. Verranno ammazzati anche un giovane calciatore, il conducente di un autobus e la passeggera di un taxi. Poche ore dopo, compare in città il cadavere dello studente Julio Cesar Mondragon, orrendamente martoriato. E mancano 43 ragazzi. Cresce la pressione mediatica e popolare per ottenere giustizia. Arrivano i primi arresti…

Tra le pagine del volume, il lettore potrà seguire il corso di una vicenda non ancora conclusa, segnata da una catena di complicità e inadempienze, ma anche dalla tenacia delle famiglie degli scomparsi e da quella dei movimenti che hanno riempito le piazze da allora. La verità ufficiale dice che la polizia ha consegnato i 43 studenti ai narcotrafficanti e che questi li hanno uccisi e bruciati in una discarica. Una versione poco sostenibile, ribattono i periti argentini nominati dalle famiglie e diverse testimonianze autorevoli. I 43 potrebbero essere scomparsi nelle caserme militari, segregati o inceneriti nei forni crematori clandestini. Una tesi su cui stanno indagando pochi coraggiosi, a rischio della vita. Dal dicembre del 2012 – quando è iniziata la presidenza di Enrique Peña Nieto – a oggi sono state scoperte più di 250 fosse clandestine. Ad accompagnare l’attività di ricerca delle famiglie nel Guerrero, la polizia comunitaria, composta da contadini e indigeni, «da persone umili con pochissimi mezzi e armi a disposizione».

Milizie di cittadini che girano a volto scoperto e con uniformi riconosciute e si richiamano a sistemi di vigilanza e di difesa delle comunità indigene, in vigore dall’epoca della dominazione spagnola. La base giuridica per la loro esistenza – ricorda Lorusso – si ritrova nella dichiarazione Onu sui popoli indigeni, nella Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro e in alcune norme dello stato del Guerrero che ne giustificano le attività. In diversi stati del paese – nell’ultimo anno nel Guerrero, Oaxaca, Michoacan e Morelos – si è diffuso però anche il complesso fenomeno delle autodefensas, gruppi di autodifesa pesantemente armati e mascherati che rispondono a logiche e a interessi locali: un «riflesso palpabile e armato – scrive Lorusso – della perdita di credibilità delle autorità locali, ormai non più in grado di garantire la sicurezza e anzi sempre più spesso colluse, o quanto meno accondiscendenti, con la criminalità organizzata».

Il libro non avanza analisi, ma le suggerisce offrendo anche diversi spunti per riflettere sullo stato della giustizia messicana. Descrive la traiettoria dei narcotrafficanti e gli interessi politico-finanziari che li alimentano. Evidenzia i meccanismi che producono la «fabbrica dei colpevoli» e il sempiterno riflesso d’ordine diretto in primo luogo contro la protesta sociale. Dà voce agli attivisti. E, dalle alture del Chiapas alle piazze di Città del Messico, rilancia il grido della carovana per i 43 scomparsi: «Por qué, por qué, por qué nos asesinan si somos la esperanza de América latina?…». Perché, perché, perché ci assassinano se siamo la speranza per l’America latina? Il grido de los de abajo contro il resto: l’1% dei todopoderosos.