Agosto 1930. Uno studente viennese di storia dell’arte, di ventuno anni, visita Mantova. Si accorge che ai limiti della città sorge un palazzo quasi del tutto sconosciuto. Forse, scorrendo la sequenza delle sale, e capitando improvvisamente in quella dei Giganti, avrà avvertito un brivido di terrore. Come quelli che procuravano i primi film sonori: l’anno dopo, nei cinema tedeschi, si poteva vedere Il mostro di Düsseldorf.
La cultura del giovane Gombrich, verosimilmente, è raffinatissima. Il padre è un avvocato facoltoso, la madre ha frequentato il conservatorio. È cresciuto nell’università dove gli studi storico-artistici sono avanzati meglio che altrove. Perciò non ci mette molto a capire che il palazzo del Te di Giulio Romano, costruito fra il 1526 e il 1534, è un capolavoro da riscoprire con le lenti del presente – e quando torna a Vienna propone al suo maestro, il grande Julius von Schlosser, una tesi di laurea sull’argomento. Passano pochi anni e il lavoro prende la forma di due articoli pubblicati nello «Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien».
Come se lo studente volesse far notare al professore che ha ascoltato con attenzione la lezione, la trattazione parte dal cuore della critica d’arte: il primo punto di vista è sulla forma. Giulio è artista dell’angoscia, senza mezzi termini. Come fine generale della sua opera, ha volutamente predisposto la rottura dell’armonia, la percezione di materie appesantite, il nascondere appositamente ciò che si riserva allo spettatore. Siamo in una villa di delizie, eppure nella facciata rivolta verso il cortile domina un senso di meditata incompiutezza. Non una rovina, ma «una forma che è sul punto di rovinare». E il grezzo e il sospetto di un collasso continuano talvolta a inquietare lo spettatore: anche nella grotta, dove la natura dovrebbe integrarsi, e invece aggredisce la muratura. Talvolta. Perché Giulio non manca di concedere riposo percettivo; altrimenti, senza dialettica, la sua scommessa sul manierismo, come alternativa al classico, non avrebbe rappresentato una tentazione. Così la facciata sul giardino, con la serliana, attrae «massimamente di lontano», ma se ci si avvicina si teme ancora che quelle masse siano frutto di un tranello: dentro potrebbe nascondersi qualche bestia del mito.
Da un lato, Gombrich doveva sbarazzare il campo dalle rigide interpretazioni correnti sull’arte dopo la morte di Raffaello. Non era più ammissibile credere che, finito il Rinascimento, contasse solo la cappa morale imposta dalla Controriforma. Dieci anni prima, proprio a Vienna, Max Dvorák aveva aperto la strada alla rivalutazione del Manierismo, in polemica con gli strali provenienti da Heinrich Wöllflin, che anche per Gombrich è uno spettro difficile da gestire. Quello che interessava a chi frequentava la scuola di Vienna era mantenersi nel solco del maestro, Alois Riegl, che per primo, a inizio secolo, aveva indicato nel Kunstwollen, ossia nella volontà dell’artista – oggi tradurremmo meglio con «intenzione» – il principio della creazione artistica. L’apertura era in direzione sia psicologica che storica, e lo sviluppo più entusiasmante proveniva dai saggi di Ernst Kris che, sempre partendo dall’analisi formale, aveva intuito che l’artista punta sempre a costruirsi una personalità, consapevolmente e in funzione di un pubblico capace di apprezzare (e di promuovere) la sua opera e la sua immagine. Gombrich dunque indaga la Künstlerpersönlichkeit di Giulio, inquadrando la sua opera mantovana nel contesto storico e nella sua produzione individuale. Spende una felice opposizione con Michelangelo (Laurenziana, Campidoglio), che pure aveva provato a rendere tragico lo spazio costruito, ma per indurre a una sublimazione. Per il «divino», contava l’ascesa; per Giulio, la caduta. La «forma distorta» non è quindi un episodio sporadico nell’opera di Giulio, rientra anzi in una sorta di catalogo mefitico, che comprende terrificanti incisioni, volti allucinati di carnefici, goffi vecchioni spaventati. Scottante rimaneva il rapporto fra le due arti ed è qui che Gombrich rivela le sue qualità di interprete fine, di una storia guardata sempre a tutto tondo.
Da quando la pittura decise di porsi come prolungamento illusorio dello spazio architettonico, la soluzione prevedeva cieli, giardini e finzioni che potessero entrare nelle stanze. Così Mantegna, poco distante, nella Camera degli Sposi; ma soprattutto Pinturicchio nella Libreria Piccolomini a Siena, e poi Raffaello nelle Stanze Vaticane, avevano scelto di armonizzare le storie alle partizioni architettoniche presenti, favorendo leggibilità e serenità in chi osserva. Giulio a Mantova complica il problema, su più versanti. Nella sala dei Cavalli, i ritratti degli equini prediletti dal duca sono protagonisti, perché impediscono sia la veduta sul paese sia la regolarità delle lesene. La distorsione, leggera, è già attiva. E per di più, i cavalli occupano uno spazio talmente vicino da parere impudico, quasi a voler dimostrare la falsità di tutta l’intelaiatura architettonica. Solo loro esistono realmente; il resto, per il duca e per Giulio, conta meno. Nella sala di Psiche, la «libidine» dei corpi nudi della favola antica è disturbata; nell’oculo, al contrario di Mantegna, il cielo si è scurito e gli scorci servono a immettere nel tormento. Il Polifemo-maciste, come lo Zeus olimpico di Fidia, va temuto: «se gli venisse in mente di alzarsi in piedi, sfonderebbe il soffitto». La sala dei Giganti, non più sola, è quindi da leggere alla luce, tutta moderna, di un racconto di Edgar Allan Poe, The Pit and the Pendulum: un carcerato, attorniato da pareti infuocate che si stringono contro di lui, è costretto a rimpicciolirsi, finché non sprofonda in una voragine.
Ma, bravo a sfuggire a ogni forma di sovra-interpretazione, Gombrich sa bene quanto contano gli insegnamenti di Schlosser, mostro sacro della storia dell’arte, che con l’Italia aveva un rapporto di tale consanguineità, da potersi considerare a buon diritto un oriundo. Per chi afferiva alla sua scuola, lo studio della letteratura artistica e della committenza si ponevano come premesse per ogni genere di azione critica e storiografica, di saldo senso storico crociano. Per comprendere Giulio, occorre quindi immergerlo nelle relazioni letterarie del suo committente, Federico Gonzaga, che insegue Michelangelo, approva la sensualità di Correggio e patrocina la sprezzatura tizianesca. Il duca vuole bizzarrie – e quando muore, Giulio predispone un apparato funebre dove immagini di teschi, ossa e finte sculture in lacrime ricoprono la chiesa di dolore. Poco dopo toccherà a lui, e nell’epitaffio che compare nella biografia vasariana, sarà ricordato come colui che suscitò invidia negli dèi. Quel Giove irato che scaglia fulmini contro i giganti può ora prendersela con Giulio, artista che ha voluto osare troppo, non temendo la punizione che ha figurato.
L’opera di Giulio Romano Il palazzo del Te (ora pubblicato dal mantovano Tre Lune, con ottimo apparato illustrativo e una veste grafica agile e svecchiante, a cura di Federico Bucci e Massimo Bulgarelli, pp. 269, euro 26,00 – il testo era già stato tradotto nel 1984, nei «Quaderni di Palazzo Te») risulta insomma un libro felice e rinfocola la convinzione che ancora tanto ci sia da tradurre, in specie dal tedesco, della stagione aurea degli studi storico-artistici; in più, rendendo piacevole la lettura anche per chi non è specialista.