Una domanda che gli appassionati di arte e soprattutto i curatori di una mostra si pongono spesso è Cos’è il Bello? Una risposta vera in assoluto probabilmente non esiste, soprattutto se la mostra si intitola Gorgeous”, se è a San Francisco all’Asian Art Museum, in collaborazione con il concittadino SFMOMA (oggi chiuso per ingrandimento). Tutto, forse, è bello.

La mostra, che ha aperto il 20 giugno (e chiuderà il 20 settembre), coglie la sottile ironia di questo gioco alla definizione.

Arte proveniente dallo SFMOMA, dalle sue collezioni di arte moderna e contemporanea (quindi sostanzialmente del mondo occidentale) questa volta deve integrarsi e dialogare con opere presentate dall’Asian Art Museum, provenienti da India, Giappone, Tibet, Cina e che, a volte, risalgono a migliaia di anni fa.

Non c’è nessuna pretesa di dare definizioni o giudizi, certamente non c’è la volontà di proporsi al pubblico con la solita serietà accademica. Di fronte a culture tanto diverse, tanto differenti, e di periodi storici tanto lontani, l’unica cosa che si può davvero fare, con estrema ironia e con gli occhi curiosi del principiante, è di essere aperti a ogni opera e dettaglio che possa essere in grado di stupirci e affascinarci. Lo scopo di una mostra di tal genere è, come dice il direttore dell’AAM Jay Xu nel catalogo, “di essere vista, di divertirsi, di essere divorata, anche solo perché ogni oggetto presente è sempre bello in qualche modo”. Sì, bello ogni oggetto, nella sua ricerca, nella sua raffinatezza, nella sua ricerca, nei suoi materiali. Ogni opera è stata fatta per essere bella. Per essere Gorgeous, appunto.

E qui sembra anche più facile capire che il bello resta sempre mutante e impreciso, sempre in trasformazione, sempre vero e sempre assolutamente non vero e il contrario di se stesso.

Opere d’arte, 72 opera d’arte (tra dipinti, tessuti, sculture di pietra e legno, composizioni, fotografie, disegni, opere di design), ognuna delle quali parla dal suo piccolo angolo di mondo e dalla sua epoca, a volte antica.

Allora l’idea di bello, ci rendiamo conto, può assumere sempre altre sfumature, valenze e significati.

Le possibilità delle opere, divise in dieci gruppi (Seduction, Dress Up, Pose, In Bounds, Danger, Beyond Imperfection, Reiteration, Fantasy, Evocation, On Reflection), restano sempre illimitate e ognuna potrebbe integrarsi anche con le altre definizioni. Proprio qui sta l’ironia della sfida, mettere insieme opere provenienti dallo SFMoMA e altre, di centinaia di anni fa, se non migliaia, della collazione dell’AAM. Non ci possono essere giudizi di sorta, ma solo la realizzazione di come oggi, per ogni singolo visitatore, le cose sono valutate diversamente cercando tuttavia di non dimenticare l’obbiettivo di guardare senza pre-giudizi.

Il confronto di opere tanto diverse, che hanno l’obbiettivo di raccontarci una loro storia, ci può stimolare ad un’attenta e imparziale osservazione.

Questa è la voluta incertezza che la mostra suscita. Invece di chiudersi in una classificazione sterile e accademica, che si basa sulla solita distinzione di occidente e oriente, su nuovo o antico, qui non siamo in grado di scegliere con i soliti schemi ma possiamo invece chiederci semplicemente se può essere bello e ci piace ciò che vediamo.

Di fatto molte opere, soprattutto quelle esposte nella stessa sala, raggiungono il limite della sfida e lo superano. Può essere il limite tra la seduzione e la repulsione, tra ciò che ci conforta e troviamo familiare e quello che ci disturba, tra il saggio e l’ironico, tra il sereno e l’ossessivo. Un altro contrasto, presente in tutta la mostra, è certamente l’opulenza, spesso considerata segno di valore e bellezza, come per suppellettili e statue carichi di ornamenti e di oro. Si arriva poi a un’opulenza diversa, quella del primo modello di iPhone del 2007. E c’è anche l’opulenza strafottente del cucchiaio laccato d’oro per la cocaina (Tobias Wong, con “Ju$t Another Rich Kid”).

Gorgeous insomma ci vuol dire che si può andare oltre, che c’è oro, tanto oro, tante lusso e, per essere davvero Gorgeous c’è anche bisogno dell’eccesso. E così si capisce la stampe di Andy Warhol delle foto di Jacky Kennedy (Two Jackies, 1964) al funerale del marito. Opere belle, anche nel loro drammatico eccesso di dolore insopportabile. Del resto lo stesso Warhol ci diceva che un’immagine, vista e rivista molte volte, perde il suo significato e in qualche modo diventa anestetizzante.

Gorgeous, il bello all’estremo, diventa imprendibile, viaggia sui confini a volte pericolosi dell’incomprensione, a volte del satirico, si ferma in attesa, ma sempre aspettando una sorta di risposta.

Per esempio, in Dress Up, il messaggio che viene dato dal vestito e dagli oggetti che adornano il corpo, riesce a dare sempre anche altre comunicazioni, altri significati. Vestirsi diventa una sorta di montaggio di segni che sono espressioni del mondo di chi indossa, ci dicono del suo sesso, della classe sociale, della sua cultura. Proprio nel dipinto Portrait (Futago) di Yasumasa Morimura, l’artista ricrea, con estrema ironia, il dipinto di Eduard Manet Olympia del 1863, rappresentando se stesso come la stessa Olympia, nudo nella stessa posa sul letto, e come la cameriera di colore in secondo piano. Il messaggio di Morimura fa riflettere l’osservatore sulla bellezza, sul genere sessuale, sull’essere osservati, sul porsi in posa. Anche l’opera di Jeff Koons, che apre la sezione Seduction con “Michael Jackson and Bubbles”, ceramica tutto bianco e oro, con il re del Pop e il suo scimpanzé, sicuro, non è facile da capire. E poi le fotografie di Sally Mann, che ritrae la figlia di 5 anni in una fotografia a torso nudo e con una collana di perle, che la presenta con atteggiamenti del corpo sicuramente più consoni ad una ventenne un po’ smorfiosa. Belle queste opere? Forse no. O forse solo Gorgeous.

Nella sezione intitolata Beyond Imperfection, nel dipinto Strout di Marylin Minter, l’immagine di un sandalo a tacco alto con inserimenti di pietre, che ci dicono essere nella maniera di Christian Dior, si contrappone all’immagine di un piede e una caviglia sporchi di sabbia e terra. Il contrasto dello sporco del sandalo e del piede, e la fattura quasi preziosa della raffinata calzatura, creano un dialogo di contrapposizione di bellezza e sporco. Non è sicuramente facile capire se l’immagine ci infastidisce o ci piace.

La bellezza di On Reflection si spiega con la paziente, quasi religiosa e mistica osservazione della ripetizione, come nei mandala, come nelle immagini di tappeti e stoffe, quella che si riesce a cogliere solo con un’attenzione con non si stanca ma che arriva ai limiti della meditazione. Sono i mandala Tibetani, (1650-1750) e, le stesse peculiarità si ritrovano nel dipinto No 14 di Mark Rothko, dove i colori saturi diventano una sorta di immersione ripetitiva nel colore.

E ci sono i Bounds, limiti, quelli che non si possono superare ma che vanno mantenuti per scelta, per ordine. Sono i limiti di Piet Mondrian, presente con una composizione di Blu Rosso e Giallo, o i limiti di uno scialle copri-testa dell’inizio del novecento proveniente dalle Filippine. Milan Kundera, citato nella mostra, ci dice che “la felicità è il desiderio di ripetizione.”

Nella sezione Pose, una statua della divinità buddista White Tara del 1400-1500 dal Nepal, sta nella stessa sala con Bob Love, foto di nudo di Mapplethorpe, e con il dipinto di Picasso Le Femme d’Algerie.

Tutto è possibile.

Gorgeous è bellezza all’estrema potenza, dove tutto davvero può essere e i giudizi cambiano. È bellezza con quel qualcosa in più.