Dopo la pista uigura, in relazione all’attentato di Istanbul la notte di capodanno, potrebbe spegnersi anche quella kirghiza, a dimostrare una difficoltà investigativa che non offusca la realtà centro asiatica, da tempo considerata una zona «calda» per quanto riguarda l’offensiva jihadista.

Soprattutto questa estate, quando il Pentagono ufficializzò la perdita di porzioni territoriali rilevanti tanto in Siria quanto in Iraq da parte dell’Isis, la regione è stata considerata al centro di trame jihadiste. Secondo gli analisti, tra Kazakistan, Tajikistan, Kirghizistan e Uzbekistan, ci sarebbero numeri importanti di foreign fighters che – alla luce delle sconfitte militari del Califfato – starebbero tornando indietro per organizzarsi come «cellule» e preparare attentati tanto in patria quanto in Europa. A questo proposito vanno specificati due elementi: i numeri che non risultano sempre affidabili, le ragioni e il comportamento dei governi locali, sui quali in molti si interrogano circa la reale capacità, eventualmente, di contrastare il fenomeno jihadista.

Secondo il governo del Kirghizistan nel luglio scorso, i foreign fighter partiti dal paese per la Siria e l’Iraq sarebbero stati almeno 500. Di questi 50 sarebbero tornati e sarebbero da considerarsi «attivi». Numeri analoghi sono forniti dalle autorità della sicurezza di altri paesi di quello che è noto come l’Heartland asiatico.

Come ha riportato questa estate il The Diplomat, «Il presidente del Tagikistan Rahmon ha espresso la sua preoccupazione per il coinvolgimento dei giovani in attività di combattimento in Siria e in Iraq dalla parte dello Stato islamico. Secondo una dichiarazione del Ministero degli Interni, 1.300 cittadini tagiki stanno prendendo parte alle ostilità all’estero, fino ad oggi, 147 sono tornati da Siria e Iraq»; due di questi sono stati condannati a dieci anni di carcere perché avrebbero preparato un attentato contro il presidente.

Storie analoghe sono riscontrabili in Kazakistan, Uzbekistan: paesi che hanno fatto della lotta all’estremismo islamico una sorta di marchio di fabbrica, ma che continuano ad avere governi opachi, corrotti, la cui attività non favorisce le fasce più deboli della popolazione. Non solo perché spesso i partiti politici islamisti hanno vita difficile, in alcuni casi sono proibiti, proprio perché accusati di avere connessioni con gli uomini del Califfo. La preoccupazione, dunque, è che questi stati non siano in grado di evitare ai jihadisti una organizzazione su vasta scala, che permetta una diffusione di questi foreign fighters di ritorno anche in Europa.

Diverso è il discorso sugli uiguri, della regione nord occidentale cinese dello Xinjiang, di cui tanto a lungo si è parlato finché si è creduto che l’attentatore di Istanbul fosse proprio uno uiguro. In quella porzione di territorio cinese il controllo di Pechino è ferreo, tra repressione e tentativo di imporre uno sviluppo economico capace di diminuire le cause che possono portare a nuovi attentati terroristici.